Quando l'autunno si fa più fresco e la nebbiolina comincia a calare dalle colline e si avverte l'incombere dell'inverno, inevitabilmente mi prende la nostalgia di Mosca e di quegli anni di cambiamento così interessanti per uno come me, che ero solo e fortunatamente un osservatore esterno. Nostalgia del freddo e delle strade fumose, di quel buio anticipato che avvolgeva la città malamente rischiarato dalla fioca luce gialla dei lampioni, della solitudine di quelle strade larghe, malandate e prive di macchine. Quando passeggiavo lentamente sui grandi marciapiedi sconnessi, con la shapka di pelo giallo calata sulla testa e la sciarpa bene avvolta attorno alla bocca, che il gelo non penetrasse diretto a darti quella sottile fitta dolorosa che segnalava una temperatura a cui non ero abituato, finivo invariabilmente sulla Piazza Rossa, dopo aver traversato con calma il grande spiazzo dell'ippodromo.
Non c'era ancora il grande portale ricostruito qualche anno dopo a simiglianza dell'originale e, passato il severo edificio del museo Lenin, arrivavi sulla grande piazza quasi deserta, camminando sul selciato leggermente bombato, grigio e in attesa della prima neve. Sul fondo le guglie colorate di San Basilio, occhieggiavano a contrasto dei severi graniti scuri del tromboneggiante mausoleo addossato all'alto muro del Cremlino. Ti dava la sensazione di una sonnolenta attesa, di una minaccia di cambiamento, desiderato ma temuto al tempo stesso, quasi che le novità non potessero mai essere positive. L'unico movimento consistente era sul lato sinistro della piazza e nelle vie che lì convergevano. La gente intabarrata in cappotti lisi e dublionke spelacchiate, le donne ingolfate in vaporosi maglioni di angora cinese, arrivavano a frotte e si buttavano, per sfuggire alle folate del vento del nord, nel lungo edifico che si stendeva su tutto quel lato della piazza.
Erano i magazzini GUM (Gosudarstvennyi Universalnyi Magazin - Negozio generale statale), allo stesso tempo paese dei balocchi e vetrina/immagine dell'URSS di quel tempo. L'edificio della fine dell'800, chiaramente ispirato alla moda dei magazzini La Fayette, non ne aveva comunque saputo copiare la graziosa leggerezza, ma la sua voluta grandiosità ne dava una versione pesante e provinciale, tipica di chi, potente, vuole adeguarsi a mode ed eleganza che non gli sono propri. L'edificio aveva però, nel tempo, acquisito una sua dignitosa maestosità. Entravi attraverso le triple porte sgangherate, dove una corrente simile ad un uragano soffiava costantemente. Era la differenza, a volte di 50 gradi tra interno ed esterno a renderla così violenta e costante. Così superato il passo ti trovavi di colpo, dal gelo della strada, immerso in in una atmosfera di caldo umido e sudaticcio a cui presto l'olfatto si abituava. Ti aprivi i bottoni, ti allargavi la sciarpa e subito il senso di disagio si affievoliva. Come fa presto l'uomo ad abituarsi alla puzza, al marcio, al disagio fisico a cui segue con facilità quello morale. In poco tempo tutto sembra naturale, normale, visto che se lo fanno tutti sarà giusto così. Davanti a te si apriva la prospettiva delle tre grandi gallerie coperte a tre piani su cui si apriva la sfilata dei negozi che gli avevano conferito il nome originale Verchnie torgovye rjady (serie di negozi di qualità).
Era tutto un alternarsi di punti vendita del più famoso artigianato russo, inframmezzate da negozi di abiti, cappelli, scarpe ed altri beni di consumo ambitissimi dai moscoviti e nella maggior parte dei casi desolantemente semivuoti o con qualche campione polveroso, esposto malamente sugli scaffali. Eppure questa era la vetrina dell'URSS ma dei frigoriferi erano esposte solo le fotografie e tu potevi entrare e metterti in lista, dopo avere pagato naturalmente, per avere la possibilità che un giorno indefinito ti fosse consegnato il bramato elettrodomestico. Era questa, assieme alla proverbiale scortesia e scontrosità delle commesse, la sua principale caratteristica. Io me ne andavo qua e là, godendomi i punti di vista migliori, come quello dello spazio centrale, dove dalla seconda galleria dominavi la grande fontana che occupava l'incrocio con i corridoi laterali, sotto la cupola di vetro liberty. Mi godevo tutti i banchi snobbati dai russi, perdendomi tra le scatolette di Palech mirabilmente miniate, le spille di legno colorate, i grandi scialli neri ricamati a fiori, gli splendidi giocattoli di legno, i pendenti dell'ambra del Baltico, i grandi cucchiai e i contenitori in legno rossi e neri con i motivi dipinti in oro, le bambole ukraine. Mi attirava morbosamente un grande negozio dove erano ordinatamente esposte le stupende ceramiche di Djel, bianche e azzurre, dove lasciavo invariabilmente il mio obolo, andandomene col mio pacchetto avvolto in una vecchia Pravda che conteneva un piatto portauova con la tenera gallina portasale al centro o un tazza dai bordi delicati, il cui decoro era firmato da qualche sconosciuta artista.
I prezzi erano ridicoli per noi che con la forza del dollaro stupravamo quella debole e traballante economia. Adesso le cose sono cambiate, innanzitutto la G di GUM non significa più Statali ma Grandi e ogni negozio esibisce le più famose griffe mondiali della moda, dei profumi, dei gioielli, del lusso, dedicata al nuovo russo. Niente più spazio per delicate ceramiche, tazze colorate, colbacchi di volpe, piccole sculture di osso siberiane, ma solo la volgarità internazionale di scarpe sportive americane fatte in Indonesia, vestiti con scritte confezionati in Cina, profumi con nomi francesi, gioielli dalla forma italiana. Avranno certamente cambiato anche le pesanti porte a vetro cigolanti e al posto del vecchio bar che serviva solo butterbrodi secchi con burro e aringa, adesso ci sarà un bel locale con aperitivi e cocktails internazionali. Però la gente continuerà a scorrere davanti alle vetrine allora vuote, adesso colme di cose che non può comperare, lanciando le stesse occhiate tristi in attesa di un cambiamento, come sempre desiderato e temuto, anche se come è sempre stato, bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga come prima.