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venerdì 13 marzo 2009

Lettòne o Lèttone?

Qualche giorno fa, Dottordivago, sul suo blog Il panda deve morire, faceva riferimento al lettòne da non confondere col lèttone e subito la mente mi è tornata ad un momento importante della storia europea ed al fatto che puoi capitare in mezzo ad avvenimenti più grandi di te senza accorgertene minimamente. La skyline di Riga vista al di là della Daugava ghiacciata nel cuore dell’inverno, non è particolarmente avvincente, come invece passeggiare tra le case dalle facciate colorate della città vecchia. Così lasciammo alla sera la città, senza troppi rimpianti, con qualche contatto in agenda, ma pochi affari concreti. Salimmo dunque nel vagone coupé che ci avrebbe riportato in una Mosca nervosa per i cambiamenti troppo improvvisi, preparandoci per la notte. Opportunamente pigiamati, nel calore torrido del vagone, non avvertivamo i -20° C con cui la notte russa avvolgeva il convoglio che fendeva l’oscurità. Dopo qualche tempo, era già passata da un po’ l’ora del vampiro, il treno si fermò nella pianura gelata e bianca. Assonnati, ci tirammo fuori dalle cuccette pensando al solito formale controllo passaporti, all’ingresso della regione russa, ma non avevamo fatto i conti con la storia che incombeva su di noi in quel marzo del ’93. Quando pochi giorni prima eravamo partiti, uscivamo dall’URSS vicina al tracollo, ora entravamo in Russia passando dal nuovo confine lèttone-russo. Dagli sportelli spalancati, assieme al gelo della notte, entrarono un gruppo di neodoganieri, compresi del loro nuovo potere e completamente ubriachi. Un vero assalto alla diligenza con urli e minacce che procedevano di scompartimento in scompartimento verso di noi. Io, semiaddormentato ed alle prime esperienze russe, capivo poco, ma Gianni ed Eugenio scesero dalle brande con occhio preoccupato. Mentre i figuri in divisa taglieggiavano i poveracci coi fagotti che ci precedevano, un graduato col cappello di traverso sbattè i pugni sulla nostra porta intimandoci di aprire. Consegnammo i passaporti e qui cominciò il dramma. Secondo il tizio, che tentava di tramortirci con il tasso alcoolemico del suo fiato urlandoci in faccia, io ero uscito illegalmente dalla Russia qualche giorno prima e il mio vecchio visto non mi consentiva di rientrarvi. Gianni, in possesso di visto multiplo ed Eugenio, essendo russo, si trovavano in una posizione più sfumata, se pur pesantemente irregolare. A nulla valse spiegare che quando eravamo usciti c’era l’URSS e non ti timbravano il passaporto per andare a Riga, il major non voleva sentire ragioni e a suon di urla voleva buttarci (o buttarmi , non capivo bene) assieme alla valigia, in pigiama in mezzo alla neve. Dal colore della faccia dei miei amici, capii che dovevo cominciare a preoccuparmi, mentre Gianni iniziava una lunga e suadente conversazione col graduato che gridava insulti all’indirizzo degli stranieri prepotenti e tirchi. Questa parola segnò la svolta della trattativa. La sagace mente di Gianni interpretò il lessico leggendolo nella sua giusta valenza. Intanto sottolineò che noi non eravamo affatto tirchi e che anzi, noi eravamo i primi a ravvisare l’opportunità e la correttezza di pagare il giusto per avere un nuovo visto. Questo argomentare sembrò rabbonire il cerbero che bofonchiò qualcosa, accennando ad un costo di venti dollari in contanti, cifra evidentemente valutata come spropositata. Con grandi sorrisi, pagammo rapidi, mentre l’atmosfera si rasserenava e ci venivano restituiti i preziosi passaporti, Tralasciammo di far notare che il timbro del visto era rimasto completamente virtuale e salutammo con la mano i compari del capo che scendevano dal treno in giacchetta con in mano alcune bottiglie di vodka rapinate allo scompartimento successivo, mentre la superficie ghiacciata tra i binari scricchiolava al loro passaggio. Il treno si mise in moto lentamente nell’inferno bianco; erano le tre del mattino, ma non riuscii più a dormire fino a Mosca.

mercoledì 4 marzo 2009

Детский мир

C'è un altro luogo che ho particolarmente amato a Mosca. Nelle bigie sere invernali, dopo il lavoro, specialmente se stavo al Rossia, l'orribile (in)cubo di cemento di 7000 camere sotto San Basilio, quando avevo voglia di fare quattro passi prima di cena. Attraversavo la Piazza Rossa semideserta, passando davanti al mausoleo del Salmone, così i moscoviti chiamavano irriguardosamente la mummia di Lenin ormai privo delle lunghe code di un tempo, e scendevo verso la Tetral'naija. L'aria sapeva di cattiva benzina combusta e camminavo adagio per non scivolare sulla neve sotto la luce giallognola e fioca dei lampioni bassi. A destra scorreva Kitay gorad, la finta Chinatown moscovita fatta di negozietti senza cinesi, mentre a sinistra, al di là della piazza le luci del Bolshoj rischiaravano un po' la notte. Poi il grande corso saliva un po' e pian piano si arrivava all'altra piazza, quella che Zhenja non osava neanche nominare. Una piazza grande, quadrata, cupa e scura. Quando passavamo in macchina, lui teneva gli occhi bassi ed abbassava la voce quasi con un riflesso automatico. Mentre scendevamo nella discesa della Teatral'naija lanciava però uno sguardo di sottecchi verso la colonna centrale su cui si ergeva imponente la massiccia figura di Drezhinskij, l'inventore del KGB, la cui creatura campeggiava come un incubo in fondo alla piazza stessa, la Lubijanka. Questo edificio massiccio, probabilmente la prigione più tristemente nota del mondo, incuteva un tale terrore ai moscoviti, che nessuno passava mai da quel lato della piazza ed anche il marciapiede di fronte si attraversava malvolentieri, come a voler cancellare dalla mente, il sentore degli orrori che venivano compiuti in quel luogo. Tra l'uscita della Metro e l'angolo della piazza c'era sempre in attesa una lunga fila di donne imbaccuccate in pesanti scialloni per vincere il freddo, che vendevano merci varie. In piedi sul marciapiedi, si rivolgevano ai passanti frettolosi che uscivano dal sottopasso, mostrando chi due paia di calzettoni, chi un set di mutande, o pantofole o un vestitino per bimbi, merce poverissima riciclata o fatta in casa o rubata in fabbrica come d'uso, prima di arrivare ai negozi. Superata la fila di prefiche si arrivava sull'angolo dove la maligna arguzia dell'Apparatnyk aveva posto, per contrastare con una imprevedibile ironia, la più straordinaria e colorata Disneyland sovietica, i cinque piani dell'immenso palazzo del Dietzkij Mir, il Mondo dei Bimbi. Superate le doppie porte sbilenche si entrava nel grande salone del pianterreno, piombando in un paradiso di giocattoli di ogni tipo. Questo era strutturato un po' come i magazzini Lafayette, a cui tutte le costruzioni russe del periodo si ispiravano, con le balconate dei piani superiori che si affacciano sul grande spazio interno fino a culminate in una immensa cupola centrale. In mezzo una grande giostra viennese girava senza posa e tutto attorno un rutilare di colori e sfavillii e musica, impensabili e disarmanti nel contrasto spietato con il cupo grigiore esterno al palazzo. Tutto intorno un affastellarsi di banchi carichi di ogni sorta di giocattoli, colorati e di tutte le dimensioni che ad ogni piano cambiavano di tipologia ed aspetto. Un piano, soprattutto, era straordinariamente ricolmo di una infinita varietà di giocattoli di legno tradizionali, da smontare e ricostruire, dai colori smaglianti, verdi, gialli, e soprattutto rossi, krasnije che in russo vuol dire rosso ma anche bello. E bambole, in una varietà infinita e castelli di costruzioni, tutte in legno come quelle di quando ero piccolo. Camminavo qua e là ammirando gli occhi estatici delle frotte di bambini che sostavano di fronte a quelle meraviglie, le esaminavano, valutandone l'uso, si potrebbe dire la giocabilità, o i gruppetti di bambine che si scambiavano le bambole dai vestiti ricchi e preziosi, in un vociare sereno. Un contraltare impensato al silenzioso incubo della piazza antistante. Compravo qualche cosa, poi mi piaceva fermarmi un po' appoggiato alla balaustra del primo piano, da dove si aveva una magnifica visuale di quasi tutto il complesso. Mi sembrava di tornare a tanti anni prima, quando la mia mamma, mentre tornavamo da scuola, mi lasciava sempre qualche minuto davanti al negozio della Fata dei Bambini in via Dante. Un rito che si ripeteva tutti i giorni, io rimanevo incollato lì a sognare, affascinato dai fortini degli indiani e dai trenini, fino a quando non mi scuoteva dicendomi :- Dai, andiamo, ci torniamo domani.- E io mi muovevo a fatica, guardando indietro mentre il sogno piano piano si annebbiava. Adesso l'hanno chiuso quel negozio in via Dante, ci vendono elettronica, mi sembra e Gianni mi ha detto che anche il Dietzkij Mir non c'è più. Il palazzo è chiuso e l'interno è stato sventrato completamente. Una società turca si sta occupando del remont. Ci faranno un centro commerciale pieno di negozi di Armani e Prada. Quei bambini sono diventati grandi e hanno altri sogni.

martedì 3 marzo 2009

Del maiale non si butta via niente


Un amico malizioso, mi ha mandato l'altro giorno una foto che interpreta con fantasia morbosa un particolare di una kalbasà moscovita, una sorta di salama mortadellica di grande appeal nella santa madre Russia nel periodo eltziniano. Ebbene il Miassakombinat che la produceva, era un nostro affezionato cliente, a cui avevamo fornito diverse cose, in settori assai distanti tra loro, come accadeva in quei periodi in cui alle poche ditte accreditate veniva richiesto di fare trading su un po' di tutto. La peculiarità della fabbrica, che occupandosi della trasformazione de maiali, di cui, notoriamente anche in Unione Sovietica, non si butta via nulla, era di avere molte attività collaterali alla produzione dei salami, al fine di utilizzare appunto ogni parte dei preziosi suini. Tra le altre cose, una sezione cosiddetta "artistica" trasformava le ossa in graziose spille traforate per capelli, mentre la parte non edibile del grasso meno nobile, veniva data in gestione alla sezione "cosmetica" per la produzione di creme per il corpo dalle caratteristiche miracolose. Purtroppo, in quel tempo, successivo a quello in cui i prodotti neanche si trovavano, uno dei problemi maggiori era quello di conferire ai prodotti stessi un confezionamento attrattivo a simiglianza di quelli, ambitissimi, occidentali. Eravamo stati quindi incaricati di fornire un vagone (questa era la tipica unità di misura delle forniture) di lucidissimi barattoli per una miracolosa crema da piedi, capace di ammorbidire qualunque sovietica callosità con le relative attraenti e colorate, etichette autoadesive. Eravamo naturalmente presenti mentre, nel grande laboratorio in cui, uno stuolo di donnoni paludati in camici antisettici, forse residuati provenienti da un centro di ricerche spaziali, apriva gli scatoloni dal vagone appena scaricato con gridolini da ammirazione per lo squisito design italiano. Esaminavano le etichette, lodando il gusto della grafica che avevamo commissionato con stile vagamente liberty e, dopo averle suddivise con cura accanto a pile di lucidi barattoli già posti sui banconi, si apprestarono al tentativo di applicarle. Fu l'inizio del dramma. Ogni etichetta staccata dal supporto autoadesivo, rimaneva leggermente arricciata nelle manone dell'operatrice che, mentre cercava di applicarla al vasetto cilindrico, lo faceva rotolare qua e là. Nel tentativo di inseguimento, le sfuggenti confezioni correvano sui tavoli cadendo poi rumorosamente a terra o venivano goffamente trattenuti dai gomiti delle operatrici che, con entrambe le mani impegnate riuscivano a malapena, nel migliore dei casi, ad applicare l'etichetta tutta storta. Il panico cominciava a diffondersi, mentre l'ingegnere capo, responsabile della divisione ci guardava con preoccupazione, non tanto per contestarci la tipologia della fornitura, quanto per constatare disarmato l'inadeguatezza delle strutture alla modernità che incombeva. Questo senso di inferiorità rispetto alla tecnologia occidentale assolutamente infondato, era però tipico del periodo del crollo dell'URSS e qualunque indicazione proveniente dall'occidente era presa come oro colato e produsse negli anni seguenti tragici disastri nella nascente economia russa a partire dalle truffe delle finanziarie piramidali, per arrivare allo smantellamento di industrie di alta tecnologia per sostituirle con imbottigliamenti di Coca Cola. In ogni caso il momento era critico. I resposabili ci guardavano ormai come la Madonna di Fatima, al fine di avere una soluzione che non decretasse il tragico errore nell'investimento. Utilizzammo una lavagna opportunamente presente nella sala riunioni per estrinsecare il nostro progetto. Si trattava di prendere un pezzo di legno, un'assicella, scavarvi un avvallamento della dimensione del barattolo, dove questo sarebbe stato deposto e quindi tenuto ben fermo. Sarebbe quindi stato un giochetto per le varie Tatiane e Natashe, applicare le desiate etichette. Fu subito convocato il disegnatore capo, che produsse al tecnigrafo il progetto del pezzo, inviato con un veloce messo all'officina aziendale e già nel primo pomeriggio, tutto il reparto era in grado di sfornare i primi barattoli di crema da piedi "La delizia delle estremità" e lanciarli sul mercato sottostante, come dicevano Cochi e Renato. Nella cena grandiosa che ne seguì, il presidente lodò molto il nostro fondamentale intervento, mentre il glavnij inghenier assentiva con il capo, sottolineando: "Italianskajia tecnologhia". Finì come sempre a vodka accompagnata però appunto dalla salama di cui sopra, la migliore del mondo, come precisava di tanto in tanto il Presidient, levando il bicchiere per il brindisi.

Biglietti difficili


Era un'inverno mite quell'anno a Mosca, con un piccolo sole anemico e basso nel cielo. Per le strade il consueto odore di cattiva benzina mal combusta dalle poche zhigulì che correvano sui viali, raschiava il fondo della gola e per questo, quel sabato pomeriggio, mi ero rifugiato a Novodievici, un oasi di bellezza e di pace quasi al centro di Mosca, aggirandomi nel piccolo cimitero e cercando tra le tombe coperte di neve, quelle dei personaggi famosi che vi hanno trovato la pace. Il volto severo di Mayakovsky e il semplice cippo di Bulgakov, e Chekhov, Gogol e la stele di Eisenstein; i grandi musicisti e l'ironia della tomba di Khrushchev, con il monumento scolpito da Neizvestny che in vita aveva sempre tacciato di arte degenerata. Avevo l'aereo l'indomani mattina e non volevo lasciare la città senza essere stato al Bolshoi, non importa a vedere cosa. Mi infilai quindi nella metro scendendo alla Teatral'naja, una delle più belle stazioni, coperta da marmi bianchi che le malelingue dicono sottratte da Stalin direttamente dall'abbattimento della cattedrale del Redentore (effettivamente le date coincidono) e dalle stupende maioliche in bassorilievo che ricoprono il soffitto. Emerso nella piazza del teatro, mi apprestai a risolvere il problema della ricerca del biglietto. Questa di procurarsi i biglietti, a Mosca, è una cosa curiosa. Per qualunque evento serva o per prendere un aereo o un treno, nessuno pensa di andare alla biglietteria, dove pare siano sempre esauriti, ma bisogna conoscere qualcuno che, tramite amici, conosca il posto dove ce ne si possono procurare. Zhenia, a cui mi ero rivolto il giorno prima, mi avea fatto un tortuoso giro di parole, parlandomi di amici degli amici che forse potevano procurarmi qualcosa, ma mi era parso troppo vago e sapevo che, in prima battuta, non voleva mai dire di no, quindi lasciai perdere. Speravo di trovare direttamente sulla piazza il consueto gruppo di bagarini in cerca di turisti spaiati. Così mi aggiravo davanti al frontone neoclassico del teatro, quando individuai un gruppetto di individui dalle facce interrogative che si guardavano intorno fiutando affari. Il primo a cui mi avvicinai, allargò contemporaneamente il sorriso e la tasca mostrandomi denti ricoperti d'acciaio e un pacco di carte. "Bil'eti?" propose cauto. "Karoshie miesta?" domandai speranzoso di attenere una buona posizione. "Prikrasnie!" magnifici, assicurò l'astuto mangiafuoco, addolcendo la voce per quanto possibile e, piantina del teatro alla mano, mi illustrò la buona disposizione dei suoi biglietti. Iniziammo la trattativa e mi stupii della rapidità con cui concludemmo sui 250 rubli, circa 8 dollari e col mio tagliando in mano salii per il magnifico scalone affascinato dagli stucchi e dalla bellezza delle sale senza preoccuparmi neppure di cosa andavo a vedere. Era il teatro in sè, con la sua carica di storia e di bellezza che mi interessava e mi stordiva, salendo le scale lentamente, a fianco di signore vestite con cura, che parlavano a bassa voce, come si faceva anche da noi, ma tanto tempo fa. Molte uscivano dale toilettes dove erano andate a cambiarsi gli scarponcini sporchi di neve e di ghiaccio con cui erano arrivate a piedi, per esibire scarpine leggere col tacco alto, eleganti, di finto taglio italiano, desiderio irrealizzato. Si lasciava poi il pacchetto al garderobe assieme ai cappottini con i colli di pelliccia e i bei colbacchi di visone, ricevendo in cambio da deliziose vecchie signore con camicette di pizzo, un bigliettino ed un piccolo binocolo d'avorio. Salire verso l'alto sempre di più, forse il mio posto non era poi così magnifico. Finite le scale sbucai nel loggione, dove una gentilissima maschera mi indicò un gruppo di sedie di legno ammassate sull'ultimo gradone. Alla faccia del bel posto! Avevo comunque una perfetta visione del bellissimo soffitto e del maestoso lampadario, essendovi per la verità, vicinissimo e comunque il palco si vede bene da tutte le posizioni. Mi accoccolai facendomi il più stretto possibile tra due balene bionde in camicetta semitrasparente che, strabordando dagli schienali mi tenevano diritto contro il duro schienale. Mi presero subito in simpatia, apprezzando lo straniero che si interessava tanto alla cultura russa, ma si sa, gli italianzy amano tanto la musica... Così scoprii, mentre il sipario si apriva, che mi sarei beccato il Boris Godunov, in versione integrale. Quattro atti, più il prologo, incluso il famigerato primo atto in cui nella segreta, il monaco Grigorij e Pimen si raccontano tragiche vicende in un dialogato di oltre mezz'ora, di norma elimininato anche nelle versioni più rigorose. Una lama nel costato, mortale, di oltre quattro ore, resa ancora più terribile dal formicolio che la mia posizione difficile mi procurava alle estremità. Solo la sala meravigliosa, le dorature, i velluti dei palchi, i visi estasiati delle mie vicine, edulcorarono il supplizio, intervallato, tra un atto e l'altro, dal rito dei butterbrodij con kalbasà e agurzy, tradizionali fette di pane e burro con salamaccio e cetrioli, distribuiti nei saloni antistanti i palchi, dove mi accompagnai di buon grado ai cetacei gongolanti. Uscii nella buia notte moscovita, con gli infrasuoni dei bassi profondi che ancora mi risuonavano nelle orecchie, in una atmosfera di altri tempi, in un passato presente in cui la periestrojka avanzava a fatica, distruggendo molte cose gradevoli e lasciando la maggior parte di quelle sgradevoli.

Credit cards: una bolla speculativa


In America qualcuno dice che il disastro è cominciato quando con un rettangolo di pastica, tutti si sono sentiti autorizzati a comprare quello che non si potevano permettere e questo mi ha ricordato la chiosa che mancava nell'avventura turkmena del post Cocoons dell'altro giorno. Riprendo dunque dal punto in cui lasciammo Bulik ed Andrej sulla porta della Banca Nazionale Turkmena. Sfogata la rabbia contro i nostri accompagnatori, cercammo prima di mettere qualcosa sotto i denti e finimmo in una squallida stalovaija indicataci dall'albergatore, dove in un puzzo da ospedale psichiatrico dell'ottocento, ci trincerammo dietro ad un tavolaccio coperto alla meglio da una tovaglia, dove le parti non chiazzate da unti diversi per qualità ed epoche, erano poco evidenti. Preceduta da un grato effluvio di cavolo bollito, un rubicondo e cospicuo donnone arrivò direttamente con due scodelle sbrecciate di chorba bollente, ricca a sufficienza di peperoncino per anestetizzarci completamente il cavo orale, così da impedirci di contestare i sapori di un secondo costituito da cavoli e altri materiali proteici nerastri di difficile identificazione. Stefania aveva tentato, pronunciando interrogativamente la parola menu, di renderci partecipi alle decisioni del mastro di mensa, ma una specie di ghigno senza parole le avevano subito tolto ogni velleità. Lasciammo sulla tovaglia marezzata i couponi che ci eravamo procurati all'ingresso con i tenghé rimasti e subito ci dirigemmo decisi per risolvere il problema più importante: trovare i biglietti aerei che ci avrebbero permesso di abbandonare per sempre Asghabad, la perla del deserto del Turkestan. Questa dei biglietti è una cosa curiosa, ma assai normale nel periodo sovietico. Bisognava subito lasciare da parte idee strane e ridicole, come recarsi alla biglietteria e comprarli. Era d'obbligo invece, avere qualche conoscenza o amicizia che sapesse indicare una struttura dove, in qualche meandro segreto si trovava un ufficio in cui, a volte, si trovavano i biglietti cercati. Il bancario, che ci aveva visto abbacchiati e poichè sembravamo persone serie, si era fatto carico, tramite un amico, di indicarci il palazzo giusto. Come in una caccia al tesoro, Stefania risolse alfine il bandolo della matassa che ci permise, chiedendo qua e là, di accedere ad un sotterraneo dove, in fondo ad un corridoio c'era un ufficio con una grata di sbarre lucenti. L'addetta, alla vista di due stranieri spaesati ma decisi, si risvegliò dal torpore postprandiale e cercò di esibire quello che riteneva essere un sorriso. Scoprì quindi due arcate dentali, completamente ricoperte di acciaio inox, che seppure inquietanti, non ci furono d'ostacolo, anzi i biglietti per il pomeriggio furono staccati senza ulteriori problemi. Al momento di pagare, esibimmo la mia carta di credito Visa. Squalo (ormai l'avevamo battezzata così) rigirò tra le mani il rettangolo di plastica con aria interrogativa, che non mutò anche alla successiva presentazione di carta American Express, chiedendo cosa dovesse fare di di quei curiosi oggetti. Alle spiegazioni di Stefania illustranti l'utilizzo della carta di credito, scoppiò in un riso irrefrenabile, chiamando a sè i suoi sodali, una biondotta slavata che si stava coprendo di rossetto consistenti porzioni di epidermide ed uno scurissimo figuro con un unico sopracciglio cesposo che gli incorniciava entrambe le arcate. Vollero ancora farsi spiegare più volte l'utilizzo del mezzo, senza voler credere che dei matti volessero comprare biglietti mostrando dei pezzi di plastica. Con i dollari che avevo come di consueto nascosto nella tasca da mutanda, risolvemmo il problema e lasciammo il luogo seguiti dai lazzi dei tre che ci davano degli italiani burloni. Attraversammo la città scalcagnata come la Zhigulì che ci portava all'aeroporto nuovo di zecca, inaugurato da pochi giorni, tutto marmi italiani, telecamere, scale mobili e porte scorrevoli automatiche. Il gabelliere mi succhiò ulteriori 50 dollari adducendo imprecisioni nelle papke di espatrio, quindi uscimmo verso la porta che ci avrebbe consegnato al tunnel dell'aereo, alla libertà. Purtroppo la porta automatica non si aprì, non funzionava, come la quasi totalità dell'aeroporto. Quando giunse un omino per sbloccare il meccanismo ed aprire le ante, corremmo verso la salvezza. La puzza di gatto morto ci seguì fino a Mosca.

Cocoons


Gospadin Bulik era un Karachaijevo allampanato, sempre stretto in un cappottino liso e leggero, anche in gennaio. Aveva una barbetta rada ed i capelli corti sotto un cappello di pelle nera di antico uso, al di sotto del quale, due occhietti da faina ti esaminavano, sempre un po' in tralice. Andrej assicurava che avesse potenti contatti in Asia centrale, ma quando eravamo andati nel suo ufficio, un buchetto scuro in una specie di conteiner di compensato, non ci aveva fatto una grande impressione. Si occupava soprattutto di trading di cotone dai paesi di lingua turchesca che dominava assai bene, parlando sempre con voce cupa e bassissima. Era un affare grosso quello che aveva per le mani. In Turkmenistan venivano prodotte grosse quantità di bozzoli da seta che, per la mancanza di macchine adatte andavano per la maggior parte perduti. Un progetto ambizioso, da almeno 5 milioni di dollari. Avevamo lavorato per mesi all'idea, con una interessante triangolazione che lo rendeva molto competitivo. La prima parte delle macchine per trattare i bozzoli venivano acquistate in Cina (l'unico posto dove venissero ancora prodotte), mentre quelle più sofisticate della seconda parte dell'impianto, le avremmo ordinate a Como, centro della lavorazione della seta. Noi saremmo stati i main contractors del progetto e del commissioning. Bulik ci confermò con mezze ammissioni che l'offerta era molto piaciuta. Era quindi venuto il momento di chiudere il contratto. In una gelida mattina di gennaio, ci ritrovammo quindi nel cadente stanzone di attesa (sala è un po' troppo) dell'aeroporto di Mineralnije Vady nel Caucaso, con Stefania, Andrej e Bulik, seduti sulle panche di faesite scrostata, prima di salire sul gigantesco Iljiushin per Ashgabad. Saremo stati al massimo una trentina e le hostess (nessuna di peso inferiore ai cento chili netti) ci fecero sedere tutti in fondo all'aereo, in una tremenda puzza di gatto morto, in quanto pare che quel modello decollasse meglio se ha tutto il peso in coda. In qualche modo il volo si concluse positivamente, depositandoci in Turkmenistan in condizioni igieniche deprecabili. Pensavamo di rassettarci alla meglio in albergo, ma l'orrenda bicocca scelta da Bulik, a suo dire il meglio che offriva la piazza, ci depresse ulteriormente. Come di consueto, il figuro al bancone fece un sacco di problemi; infine riuscimmo ad ottenere almeno due stanze col pavimento coperto di scarafaggi morti e bucce secche di mandarino . Demmo la migliore, se così si può dire, a Stefania, già molto innervosita, io mi presi l'altra, mentre i nostri due, adducendo varie scusanti, si arrangiarono nel ricovero della dejurnaija, una matrona imbellettata che esibiva una nona sotto una maglietta pelosa di angora cinese. Mi rinchiusi, dopo che un topo, ma piccolo, era sgusciato nel corridoio, vagamente illuminato da fioche lampadine, in maggioranza bruciate o mancanti del tutto. Una notte difficile, circondati dalle orde dei germi dell'Asia Centrale, ultimo rifugio della peste bubbonica. Fu un risveglio doloroso, essendo poco praticabili le toilettes, con un tentativo di colazione con cetrioli in composta, pane cementizio e smietana. Alle dieci ci aspettava il cliente per illustrare il progetto. Era in ritardo, ma quando arrivò, la delusione ci fece quasi cadere tutta la documentazione che avevamo accuratamente preparato. Ci si parò innanzi una specie di pastore asiatico leopardiano, male in arnese, con una dubljionka spelacchiata da cui spuntava una giacchetta stazzonata, che spiegò a Bulik come il progetto andasse benissimo, mentre alla mia insistente e dubitosa domanda - Dienghy iest? - (ma i soldi ci sono?) fece spallucce, dicendo che dovevamo andare in banca per il finanziamento. Stefania mi lanciava occhiate interrogative, io cercavo assicurazioni da Andrej che a sua volta le chiedeva ad un sempre più impenetrabile Bulik. Giungemmo alla banca prima di mezzogiorno ed il nostro pecoraio, che per tutto il tragitto ci aveva illustrato le montagne di bozzoli in attesa di essere trattati, fu ricevuto con Bulik in direzione. Dopo un quarto d'ora, i due uscirono a testa bassa, cercando di guadagnare l'uscita con lo sguardo bastonato del cane a cui è scappato il gregge. Il direttore si avvicinò a noi con aria di scusa e ci spiegò che il nostro cliente non aveva ben chiaro come funzionassero i finanziamenti e che aveva creduto che, complice la perestroijka, fosse sufficiente andare in banca a chiedere il denaro (5 milioni di dollari) per ottenerlo! Era assai spiaciuto perchè riteneva il progetto molto interessante, ma come tutti i banchieri, in mancanza di garanzie... allargò le braccia. Inseguimmo i due e caricammo di contumelie il pastore, che se la filò in fretta promettendo futuri e certi finanziamenti, magari in miliardi di tenghé, la valuta locale, Bulik che ci aveva trascinato in quella sciocchezza, costataci tanto impegno e Andrej che non aveva controllato la serietà della cosa. Lasciammo Bulik al suo destino e quando tempo dopo ci contattò per proporre un ricco baratto di venti chili di veleno di api e bile di orso in cambio di impianti, staccammo il fax per non sprecare carta.

Ghiaccio relativo


E' difficile capire se ciò che ti lascia senza fiato è la superficie ghiacciata del lago Baijkal o i -30 °C che freezzano tutto quello che ti circonda. I quattro metri di ghiaccio su questo mare interno sconfinato, su cui passano i pesanti camion militari che attraversano il lago come su una comoda autostrada (solo invernale) per raggiungere la Burijatia, paiono il coperchio di un colossale congelatore da cui estrarre con calma i pesci che i pescatori tentano con esche improbabili, nei buchi della calotta nella penombra invernale. Ben coperti, eravamo ad un centinaio di kilometri a nord di Irkutsk passeggiando sul ghiaccio vivo ai bordi della superficie vetrosa verde-blu. Avevamo lasciato da poco l'Istituto Limnologico in cui il Glavnij Limnolog ci aveva illustrato un mirabolante progetto di estrazione dell'acqua dal fondo del lago a 1800 metri, per imbottigliare e vendere in tutto il mondo l'acqua purissima e antica di milioni di anni del Baijkal. Trascurando il fatto che più a nord vi è una presenza di giganteschi impianti per produrre alluminio, l'anziano scienziato era entusiasta dell'idea. Solo al termine del colloquio scoprimmo che il progetto non aveva alcuna copertura finanziaria; cercamo di spiegargli il senso della necessità di dilazionare la cosa e lo lasciammo con grandi saluti ed abbracci secondo l'uso sovietico. Così rimanemo un po' a godere degli ultimi pallidissimi raggi del giorno che stava lasciando spazio alla lunga notte polare, lungo la riva da cui a fatica si scorgeva la linea lontana della sponda opposta. Il dolore forte alla base della laringe, al termine di un lungo respiro, è il segno evidente che la temperatura è inferiore ai 30 °C e l'intorpidimento generale è un ulteriore stimolo a muoversi verso un luogo coperto. Il freddo era veramente intenso, non avevo mai provato una temperatura così bassa; sentivo tutti gli arti torpidi e la punta del naso e le guance, senza riparo, erano stranamente insensibili. Rattrappiti e infagottati nelle nostre dublionke, richiamammo quindi all'ordine Kolija che ci accompagnava, pregandolo di riportarci in un luogo più consono alla vita. Lui ci guardò con occhio perplesso e sbottò: - Eh, lo so, non fa più quel bel freddo sano di una volta. A gennaio si stava quasi sempre sotto i 45 °C, ma da quando hanno fatto la diga sull'Angarà, il clima è proprio cambiato e non si va quasi mai sotto i 30 °C; per forza che poi si prendono le influenze. Andiamo a farci una bottiglia di vodka!- Lasciammo il lago verso la dacia di Kolija, mentre calava la notte.

Lepioshke e montoni


Il barbaro destino umano è di aspettare con ansia quello che sta per arrivare, per poi lamentarsene appena giunge e passare al successivo step di attesa. Così questa gelida e piovigginosa mattinata rimanda ad una primavera ancora lontana, sognata come una panacea risolutrice. In un'altra primavera ancora da sbocciare, gli spogli alberi di Taskent esitavano a spingere linfa nelle gemme ancora esili di un marzo fresco e polveroso. Bisognava festeggiare però; l'impianto appena inaugurato in un fatiscente edificio richiedeva una consacrazione trimalcionica. Il nostro anfitrione pensò di evitare il classico banchetto ufficiale nella sala dell'Hotel e ci propose un localino tipico dove assaporare la esoticità di un ambiente ed una cucina tipicamente uzbeka. Ecco dunque una corsa nella polverosa periferia sovietica (chissà perchè gli autisti dovevano sempre andare a tutta birra come se fossimo perennemente in ritardo?) per poi entrare nel cortile di una vecchia casa, circondato da un portico un po' malandato. In parte orientale, in parte turchesco, in salsa sovietica, il banchetto uzbeko è intinto di tutte le caratteristiche dell'Asia centrale. Le insalate crude, soprattutto di cipolla e pomodoro ne sono base costante, ma il piatto forte, la vera rivelazione paradigmatica della gastronomia uzbeka, il costituente centrale che condiziona la festa, ciò per cui si sceglie un posto (come da noi il bollito alla piemontese o il bue grasso), è il plof. Il nome stesso è allusivo e onomatopeico e pareva che quello, fosse il luogo dove avremmo mangiato il miglior plof di tutto l'Uzbekistan. Al centro del cortile stava un grande calderone di ferro nero, simile alla pentolaccia in cui il druido mescola la pozione per Asterix e compagni. Qui, fin dal mattino viene prodotto un amalgama di verdure, abbondante cipolla, uva passa e parti grasse di montone in cui successivamente viene cotto il riso che si intride a poco a poco, assorbendo il grasso mentre le ossa rilasciano le loro collosità midollari. E' un piatto unico dai sapori forti dove il peperoncino abbondante gioca un ulteriore parte di dueteragonista. Un punto essenziale nella riuscita di un buon plof sta nel fatto che il pentolone non deve essere mai lavato, ma i sapori di tutti gli storici plof che lo hanno preceduto, concorrono ad arricchire quello che viene portato in tavola. La quantità di residuati escrementizi di topo che circondava il focolare e la nuvola di mosche che avvolgeva tutto e tutti, facevano parte integrante dell'ambiente e del suo colore, un'area da cui sono nate tutte le grandi pestilenze del millennio scorso, inclusa la peste bubbonica di manzoniana memoria, tutt'ora giustamente endemica in quei luoghi, ma non sembrava preoccupare nessuno. L'occhio spento di Gianni mi guidò verso le tavole che rosseggiavano di pomodori cipollosi, ornate dalle ciambelle di lepjoshke, il caratteristico e fragrante pane uzbeko che veniva dal forno in fondo al cortile, proprio davanti alle latrine, su cui fitte schiere di mosche si organizzavano prima di lanciare le loro falangi all'attacco delle mense. Il succo di mela ed il thè irrorò l'intero banchetto fino all'apoteosi finale dei famosi meloni uzbeki, che come sottolineava Rustam sono i più dolci del mondo e che tentarono di ricoprire con un velo vegetale l'intero pasto, avvolgendolo in un sudario cauterizzante. Vodka, brindisi finali e pridladjenije sulla imperitura amicizia italo-uzbeka e tutti a casa. Il giorno dopo tutti sul water fino a sera, mentre un Gianni febbricitante ma non domo, tentava di raccogliere i cocci della spedizione; una prova dura, da cui uscimmo comunque tutti vivi e più forti, anche se, sul momento non pareva possibile. La guerra batteriologica è stata inventata qui.

Ismailovsky park


Un'altra domenica di neve e gelo con il pallido sole che finge di scaldare i meno tredici di stamane. Che nostalgia, quelle domeniche di gennaio a Ismailovsky Park a Mosca. Stesso gelo sferzante, stesso sole malato, solo l'aria secca che non ti fa sentire il freddo ma ti fa prudere il naso e le guance. Mi alzavo presto per buttarmi nella Metro a godere ogni volta di qualche diversa stazione. Stupendi ambienti, testimoni di un'epoca dove al centro dell'impero si voleva dimostrare la ricchezza anche se non era necessaria. Dalla Komsomolskaija o dalla stupenda Arbatskaija, fino alla Teatralnaija e alla vicina Ploshad Revoluzy dove prendevo la linea blu per Ismailovo. Passava la severa e monumentale Electrostanzija e finalmente si usciva in mezzo a montagne di neve nei sobborghi segnati dalle Krushove, parallelepipedi squallidi e giallastri costruiti in tutta fretta e al risparmio nel dopo Stalin, per placare la fame di case dei moscoviti. Un lungo rettilineo stando attento a non scivolare sul ghaccio tra due ali di babuske che vendevano calze, pantofole, mutande, improbabili valenky o robaccia cinese e finalmente una collinetta in mezzo ad un parco sterminato dove sorgeva un enorme mercatino in cui si poteva trovare tutto quello che c'era di interessante in Russia. Una Disneyland dello scambio. Pagati dieci rubli di ingresso, cominciava subito la sfilata di bancarelle dove mi piaceva attardarmi a guardare, a cercare di chiacchierare, a penetrare un poco di quell'anima russa che permea ogni manifestazione di vita. Trascuravo il mercatino degli animali in basso, per risalire a poco a poco la collina in modo circolare, quasi una montagna del purgatorio che conduceva alla cima liberatoria. Montagne di suveniri aspettavano di essere sceti, valutati, contrattati. Scatolette di Palech finemente miniate, le belle ceramiche blu di Djiel che esigevano ogni volta un mio obolo, piatti e stoviglie di legno laccato rosso e giallo, bambole riccamente vestite, spille dipinte, ogni volta pretendevano un riscatto prima di lasciarmi libero. Nel giro superiore i banchi dell'ambra e di altre pietre, le vecchie curiosità di argento come quel bel portasigarette su cui ho scorto un'incisione struggente "Al mio piccolo gattino, 1917". Come non rimanere attoniti e commossi al pensiero di quella giovane contessa che aveva preparato il regalo perchè il suo bell'ufficiale la ricordasse in qualche lontana destinazione e poi la Rivoluzione che spazza via tutto e stabilisce nuovi ordini, nuove gerarchie. Le macchine fotografiche poi, prendevano molto della mia attenzione: i gioielli della tecnologia russa, Le Kiev maestose, le piccole Zorki copie della Leica, le Horizon curiose con il loro obiettivo rotante vicine ai molti oggetti vecchi, macchine da scrivere fine secolo o i militaria, berretti, binocoli, bussole, daghe. Uno spazio a parte prendevano i distintivi e le medaglie, una vera e propria mania sovietica, che anziani dal volto duro vendevano dopo averle portate appuntate sul petto con orgoglio per anni. Passavo poi almeno un'oretta nello spiazzo dei pittori. Un gran numero di persone esponevano le loro opere intorno ad un vasto spazio circolare e si attaccava bottone facilmente. Il freddo pungeva, ma mi strigevo bene la dublionka e mi calcavo attorno alle orecchie la shapka di volpe che naturalmente avevo acquistato lì la prima volta, nei banchi delle pelli. Poi ancora i bei servizi di cristallo (ulteriore lascito), infine tralasciando le mille altre cose arrivavo alla cima della collina, che serbavo per il finale, trattenendo il desiderio di correrci subito appena arrivato. Già dal basso della scalinata si potevano vedere i cento tappeti esposti su tralicci a far brillare i colori nel sole radente. Una saga rutilante di rossi cupi, di azzurri smaglianti, di gialli pallidi, di rosa antichi. I venditori, quasi tutti caucasici dalle scure pelli rugose, si appollaiavano dietro le cataste di tappeti per difendersi dal vento che sulla cima della collina era più forte. Tutte le tipologie della produzione russa erano esposte. Grandissimi Sumak pelosi, Khazak e Shirvan geometrici assieme a tutte le loro varianti caucasiche, Adler smaglianti, scuri Bukhara e Samarcanda coloratissimi. Una volta fui folgorato da un Chichi rosso fuoco strepitoso, ma il tizio non era certo appeso a un pero e voleva 5000 dollari, così non cominciai neppure la trattativa, ripiegando però su una curiosa sacca da sella Yomud che mi lenì la delusione. Poi con i miei pacchetti me ne tornavo lentamente all'uscita per lasciarmi andare al ventre della metro prima di tornare in albergo. La maggior parte della gente leggeva libri, sulla metro di Mosca. Sarà anche un popolo di ubriachi, ma che recita a memoria Pushkin e Majacovsky. Freddo intenso, saudade, nostàlghia da annegare con 100 grammi di Stalichnaija come diceva Eugenio. Vado a farmi un bicchierino di Amaro del Carabiniere che il papà di una mia carissima amica mi ha regalato a Natale. Na sdarovije.

Il biliardo di Lermontov


Anche se in gennaio, il torrente Teberda scorreva impetuoso nella gola stretta che risaliva la valle verso Dombay. Uno spesso strato di neve copriva la strada e le betulle che venivano sostituite, man mano che salivamo, dalle conifere, erano cascate di brina scintillante mentre il giorno cedeva di colpo alla notte. Di tanto in tanto blocchi di ghiaccio vivo segnalavano le sorgenti che sporgevano dai fianchi della montagna. Così di notte arrivammo al paese deserto, una stazioncina di sport invernali abbandonata nella dissoluzione dell'URSS tra le alte cime del Nord Caucaso. Sembrava un paese fantasma sepolto dalla neve he aveva vissuto momenti gloriosi. Il nostro cliente si era preso un week end di valutazione sulla nostra offerta per una linea di imbottigliamento e aveva voluto offrirci un assaggio delle bellezze della sua terra. Eravamo ospitati, unici avventori, in un antico sanatorij che era stato luogo di riposo per Bresniev e per tutti gli altri capi della vecchia nomenclatura da Cernjenko ad Andropov e tra le grandi sale rivestite di legni profumati, si respirava l'aria di passato severo che incombeva anche dagli occhi fissi delle teste impagliate di ungulati dalle grandi corna che ci fissavano dalle pareti. Grazie ai titoli del nostro cliente, il personale ci accudì subito con grande deferenza, anche considerando che di italiani da quelle parti non se ne ricordavano e che il grande complesso era completamente a nostra disposizione. Fu quindi subito sacrificato un intero montone (opportunamente già surgelato) che fornì una ricca cena a base di sashliky polposi ben rosolati sul braciere. Vodka davanti all'enorme caminetto, crepitare di ceppi resinosi, un sapore di passato. Salimmo quindi nella sala del biliardo su cui aveva giocato anche Lermontov, il poeta morto giovanissimo in duello, come ci confermò Larissa, una cameriera rubiconda dalle guanciotte rosse e con gli occhi un po' tristi. Attorno a noi fantasmi di contesse pallide dagli occhi accesi e di ufficiali in divise perfette, spazzati via dalla rivoluzione incombente. Le palle d'avorio correvano sul panno verde delicatamente colpite con il tocco secco delle stecche antiche, lucide per l'uso. Il rumore sordo dell' avorio che finiva nelle buche aveva un tono definitivo ed in quella atmosfera magica, avevamo poche parole da dire. Si immaginavano storie, intrecci, eventi burrascosi, decisioni politiche, amori travolgenti passati attorno a quel biliardo e sollevati assieme alla polvere dal pavimento scricchiolante. Anche Stefania, che mi accompagnava, da sempre vicina ed appassionata alla cultura ed alla storia russa, era visibilmente colpita dall'ambiente e affascinata dai continui richiami al passato. La mia camera era bellissima, profumava di legno di bosco e dalla grande finestra senza tendine, ricamata di cristalli di ghiaccio, una luna piena velata illuminava debolmente il crinale che ci separava dall'Avkazia. Faticai ad addormentarmi. Il giorno successivo lo trascorremmo tra la neve del paesino deserto e dopo cena (bisognava pur finire il barano ormai scongelato, che ci fu propinato in tutte le salse, in brodo, stufato, arrosto, bollito) andammo nella banija, una piccola sauna con un bracere al centro su cui Andreij continuava a gettare mestoli di acqua, sviluppando uno sfrigolante vapore. La temperatura (come da regolare termometro sovietico validato da apposito GOST) superava i 95°C ; infatti Stefania, accampando scuse improbabili, si era data per malata, mentre noi avvolti da candidi asciugamani sudavamo copiosamente. Quando mi parve di essere pronto ad esalare l'anima a Lermontov e vedevo il fantasma di Bresniev che, pur con il baffo immobile aggrottava il cespuglioso sopracciglio, Andreij mi fece un cenno e aprì una piccola porticina nell'angolo della banija invitandomi a seguirlo. Mi trovai di colpo seminudo nell'inferno bianco degli alpini di Nikolaijevska, sferzato dalla tormenta, a piedi nudi nella neve in cui affondavo fino alle caviglie. Nell'ottundimento generale dei sensi mi parve di sentire un bruciore caldo alle piante dei piedi e nei punti dove mi colpivano le pallate di neve che Andreij scagliava contro senza pietà. Risposi debolmente tenedomi l'asciugamano male annodato, poi man mano mi resi conto che forse faceva freddo. Tornammo di corsa alla porticina, verso la salvezza; dalle gole un urlo beluino per riguadagnare il riparo. Il pavimento era bagnato e scivoloso; nell' impeto di rimettermi al coperto mi sentii mancare il terreno e caddi fragorosamente. Il rumore sordo della mia testa (assieme al resto più ricco di lardo protettivo, forse la mia salvezza) che impattava sul marmo fece tremare la dacia. Mi riportai a valle un consistente bernoccolo e forse irreparabili danni cerebrali che ancora oggi ottundono le mie capacità di pensiero.

Rosso rubino


"La place rouge était vide..." un ritornello che non riusciva ad andarsene. Che notti, quelle d'inverno a Mosca. Cominciano alle tre del pomeriggio a fine dicembre. Che pace andare a piedi verso la Piazza Rossa, dopo cena, da solo, con le suole spesse che fanno scricchiolare la neve nella immensa piazza deserta, mentre sotto i denti sentivi il gusto di ferro del freddo e dei fiocchi che non ce la facevano a cadere. Solo qualche sfarfallio, di tanto in tanto, a ricordare con qualche puntura sul viso la durezza morbida di quel mondo. Giravano pochi turisti allora e se ne stavano tutti rintanati all'Inturist, quando non se li trascinavano su vecchi torpedoni al Bolschoy o a Novodievicy. Sul grande spazio della piazza qualche guardia lontana, infagottata nel feltro sotto la shapka di ordinanza a far finta di non sentire il freddo, ad impedire che si attraversasse, chissà perchè, il grande spazio aperto. Sulla destra i magazzini GUM, che avevano chiuso appena uscita dalle sgangherate porte da cui usciva un soffio potente di calore teletrasportato, l'ultima truppa di matrioske che si erano aggirate tra i negozi che esponevano le ultime produzioni sovietiche, magari in fotografia , da prenotare. Il Cremlino incombeva sulla destra, quasi nascondendo l'incongruo mausoleo di Lenin dove le code di visitatori silenti si erano man mano diradate negli ultimi tempi, con la sua presenza silenziosa ma ammonitrice. Sull'alta torre Spaskaija, come mi ricordava sempre chi conosceva bene le cose, brillava comunque e forte la stella di rosso rubino. Ogni tanto si apriva lentamente il portale , le guardie si ponevano sull'attenti e dopo poco una Volga nera coi vetri scuri arrivava a velocità folle (chissà perchè poi) e si infilava senza rallentare sotto la torre scomparendo nei meandri del Politburò, forse a discutere dello sfacelo incombente, mentre i gerontocrati rimanevano fermi con l'occhio fisso ed il sorriso imbalsamato che li avrebbe dissolti. Che senso di immobilità statica nella grande piazza. In fondo, le cupole di San Basilio gigioneggiavano, fiamme multicolori a ballare il sabba dell'attesa di un evento prossimo. Poi, sazio, me ne tornavo al mostro ipertrofico del Rossia, una ferita inguaribile aperta poco lontano sui cadaveri di piccole chiesette ortodosse, percorrendo a piedi i larghi spazi deserti. Non serviva guardare attorno prima di attraversare; non passavano auto, non c'erano auto.

Il rasoio a due teste

Era magrissimo il nostro contatto di Kharkov, secco e allampanato, il viso scavato con una barbetta semi incolta sugli zigomi appuntiti, gli occhi neri ed infossati ancor più evidenziati da spesse lenti. Pareva uscito direttamente da Delitto e castigo, con il suo cappottino nero, stretto e leggerissimo nonostanteil gelido inverno ukraino. Così quel mattino, stando impettito, con i folti sopraccigli aggrottati, ci annunciò, come sempre a bassa voce, che ci avrebbe ricevuto il direttore di un grosso Kombinat che aveva un progetto interessante per le mani. Uscimmo, calcandoci le schapke in testa, nel gelo sferzato dal vento teso della pianura, e in una mezz'ora una Zigulì malandata ci scaricò dentro la fabbrica. Il glavny ingenier ci fece fare il giro di ricognizione, mostrando anche quello che non poteva nascondere: montagne di materiali abbandonati, macchinari decrepiti, presse Quassy anteguerra, patina di ruggine a ricoprire ogni ferro visibile, maestranze qua e là assorte a fingere di lavorare. La fabbrica produceva rasoi elettrici (ne avevo appena comprato uno di campione ai magazzini Zum in centro al prezzo di circa un dollaro) ed il progetto, nell'ambito delle nuove possibilità previste dalla ventata di liberalizzazione economica della glasnost, era produrre un nuovo modello, copia esatta del Philips, da esportare in valuta, per cui occorreva la fornitura di una serie di stampi. Il direttore e il presidente in gran pompa ci spiegarono il progetto. Era gente giovane e tutto sommato sembravano determinati a entrare con decisione nel nuovo corso. Parevano decisi a cogliere le opportunità nel nuovo vento che irrompeva in una URSS squassata dai propri problemi profondi. Mentre ci illustravano minutamente l'idea, andammo nella stalovaija aziendale, dove in una saletta VIP, un rubiconda operaia travestita da cameriera ci servì i piatti più ghiotti della mensa, tra cui il famoso pollo alla Kiev, ripieno di burro fuso che morso con disattenzione colò improvvidamente a macchiarmi la cravatta tra l'ilarità generale. Ma nella trattativa commerciale, tutte queste cose fanno simpatia e infatti, terminata la bottiglia di vodka eravamo tutti molto in sintonia, tranne il nostro magrissimo Alexey che senza appoggiarsi allo schienale della sedia beveva con metodo, senza ridere, limitandosi di tanto in tanto a proporre una pridladjenija all'amicizia tra Italia e URSS, levando il bicchiere che poi beveva tutto d'un fiato con grande serietà. Aumentata la confidenza, andai più a fondo nel progetto, chiedendo agli aspiranti capitalisti che prevedevano di vendere il nuovo rasoio a 10 dollari (e già brillavano loro gli occhi, resi più tondi dai sorsi di vodka Gorilka) quali fossero i costi di produzione che avevano calcolato, per capire in quanto tempo potevano rientrare dell'investimento. Mi guardarono con occhio sospetto, poi, dopo una lunga pausa il Presidente sbottò: "Ma perchè, è proprio necessrio saperli questi dati?". Gli spiegai che se il costo fosse stato di 11 dollari forse il business non sarebbe stato molto valido. Lui ci pensò un po', poi guardando sconsolato il direttore, emise un lungo sospiro e si aprì la diga. "Gospadin Enrico (tovarish già non si usava più), noi cerchiamo di adattarci al nuovo corso, ma non è facile. Un tempo il piano ci diceva che dovevamo produrre 100.000 rasoi all'anno; ci mandavano tanta plastica, tanto filo di rame e tutto il necessario; noi li facevamo sempre uguali e qualcuno se li veniva a prendre e se li portava via, che funzionassero o no. Se la roba non arrivava in tempo o se non se li ritiravano e stavano a marcire sotto la neve , ufficialmente era come se li avessimo prodotti; mettevamo la foto degli operai meritevoli ogni mese nella bacheca e tutti erano contenti. Adesso tutti si lamentano; le operaie vogliono più soldi (e qualcuna fa anche difficoltà ad essere, diciamo così, gentile con i capi), bisogna preoccuparsi che arrivi la materia prima, studiare un nuovo modello come se quello vecchio non tagliasse la barba, vero Kolija che la taglia benissimo? -e il glavny ingenier assentiva col capo- preoccuparsi di venderlo e adesso arrivate voi e ci raccontate che bisogna anche preoccuparsi di quanto costa farlo. Darogoy Enrico, per noi è troppo dura, non so ce ce la faremo a star dietro a tutto questo". Ce ne andammo in un turbinio di neve guidati da un sempre più impettito Alexey, una figura nera e sottile che ci traghettava verso l'uscita, tra i capannoni del zavod. Quel rasoio mi sta funzionando ancora adesso, seppure in modo approssimativo e lascia le guance rosse e irritate come la carta igienica dell'epoca che si chiamava "la vendetta di Stalin", ma ultimamente mi faccio poco la barba.

Белые березы




Gli Urali del Sud non sono che alte colline dai profili arrotondati e coperti di fitti boschi di bianche betulle. In una valletta laterale, appoggiato al crinale, il gigantesco parallelepipedo sovietico dello Yangantau Sanatorij domina la gelida esse d'argento della doppia ansa del fiume, pietrificata dai -25% di un gennaio spalmato di perestroika. Il vento teso della Bashkiria è cessato e passeggiare nei boschi illuminati dal sole pallido è piacevole anche se la pelle è un po' intorpidita, anestetizzata. Eravamo arrivati la sera prima, per concludere un contratto per l' imbottigliamento dell'acqua mineral-solfo-ferro-iodo-radioattiva, comunque più miracolosa di quella di Lourdes, che sgorgava dalla sorgente termale della zona e a cui faceva capo un centro di "vacanza e benessere" zeppo di lavoratori meritevoli che trascorrevano lì la loro quindicina di riposo (in russo, essere in vacanza e riposare si traducono con la stessa parola). Dovevamo essere ricevuti dal direttore del complesso per avere l'autorizzazione ad imbottigliare la preziosa acqua, convincendolo che non sarebbe stato turbato l'equilibrio dell'ambiente. Così dopo un'abbondante colazione a cetrioli e panna acida, nella dacia di legno odoroso che ci aveva ospitato, io ed i colleghi ci avviammo verso l'ufficio del luminare, attraversando prima i giardini coperti di neve, poi la piscina terapeutica e l'ampio salone dove gruppi di matrioske insaccate in grandi divani di similpelle, ci guardavano passare con simpatia. "Balshaija Italijanskaja delegazija" mormoravano, commentando tra di loro l'inusuale avvenimento di cui l'intero complex era al corrente. La Delegazija, nell'URSS, dava sempre una sensazione di grande importanza ai fatti ed agli avvenimenti, che venivano di norma sanciti da grandi documenti con abbondanza di vistosi timbri, preferibilmente rossi e rotondi, con un finale di brindisi e abbracci. Lo scienziato aveva un assoluto fisique du role, magro e allampanato, barba imponente e occhio infuocato, dostoievskiano direi. Ci ricevette in un ufficio semplice, da studioso che ha dedicato la vita all'indagine dei benefici effetti che la Sua Acqua dava ai corpi malati. Lo lasciammo parlare a lungo con aria grave e convincente, gli demmo le necessarie rassicurazioni, ma prima di concederci il benestare, volle che, senza indugio ci sottoponessimo ai trattamenti idroterapici offerti dalla casa. Pur essendoci già dichiarati assolutamente convinti, non potemmo sottrarci alla prova e fummo quindi condotti in uno scantinato sulfureo dove scorreva l'acqua benedetta. Io, avendo ingenuamente dichiarato dolori ricorrenti alla schiena, fui sottoposto prima alla vista del figlio dello scienziato, studioso anch'esso e specialista di schiene, che mi manipolò a lungo, scrocchiandomi rumorosamente la colonna e sentenziandomi un futuro difficile con la necessità di costante terapia termale. Il mio collega, a cui era stato esaminato con cura un ginocchi dolente, fu quindi avvolto in candidi panni e introdotto in una sorta di lavatrice da cui uscivano vapori sulfurei, mentre io venni inserito nudo in una bara di similplexiglass, in cui veniva pompata dalle profondità della terra un soffio bollente e medicamentoso. Fummo abbandonati lì per circa un'ora, mentre il collega si lamentava di tanto in tanto e solo le nostre teste emergevano dai loculi danteschi, scambiandoci occhiate interrogative. Fummo infine liberati, il documento stilato, i timbri opportunamente apposti, forti abbracci e baci suggellarono la cerimonia. Terminammo la serata nella dacia con sashliki ben grigliati e una selva di bottiglie di vodka vuote e mentre Robert, il dolcissimo e gentile ingeniere (un vero amico) che sarebbe stato responsabile dell'impianto, che aveva ormai gli occhi sbarrati ed inespressivi dietro le spessissime lenti, ci guardava senza vederci. Lo mettemmo a letto e finalmente ci addormentammo. Il mattino dopo, mentre i raggi del sole doravano la crosta gelata del sottobosco, pur lamentandosi per il fortissimo mal di testa postsbronza, Robert ci accompagnò nella valle all'ufficio postale, dove avevamo prenotato 24 ore prima la telefonata in Italia per comunicare l'accordo. Versammo i 200 rubli pattuiti per tre minuti ed alle 9:30 come previsto, l'enorme addetta, una autentica Tamara Press della cornetta, ci indicò con gesto stanco una cabina, dove tentammo inutilmente di avere la linea. Delusi, tentammo di farci restituire il denaro, ma Tanija ci spiegò che noi avevamo pagato la "possibilità" di telefonare e se non c'era la linea non era certo colpa sua. Tornammo alla dacia con calma, i telefonini e Skype erano ancora di là da venire.

Un italiano vero

Karachaevo-Cherkesskaja è una piccola repubblica semiautonoma nel Caucaso del Nord a due passi da Ingushetia e Cecenia. I Circassi, una delle litigiose etnie montanare che la abitano, sempre in lite con i vicini, sono fieri e certi dei loro diritti (e quasi sempre armati, tanto per sostenerli meglio). Nel '92 l'URSS stava per tirare le cuoia, accartocciandosi sulla incapacità di rinnovamento della sua gerontocrazia (ehehehehe, bisognerebbe imparare dalla storia , anche recente) ed io, con l'amico Evghenij, ero a Cerkiesk per un bel contrattone in una fabbrica di vodka. Terminate le trattative, ce ne andammo a pranzo, ma a quel tempo i ristoranti erano rarissimi in Russia, tantomeno in quell'avamposto montanaro. Risultò che l'unica opzione era un locale notturno che aveva anche un servizio di ristorante. Data la scarsità di clienti avrebbe aperto solo per noi e quanto ci presentammo all'una, puntuali come gli storioni del Volga, le inferiate del bunker (questa almeno era l'apparenza) erano ancora chiuse. C'erano 15°C sotto zero e dopo aver suonato una campanella chioccia, battevamo i piedi sul cemento ghiacciato, io nella mia calda dublionka, invidiato da uno Zhenija imbozzolato in un impermeabilino leggero e una piccola shapka di similpelle in testa. Dopo poco si aprirono le sbarre e comparve un armadio in camicia nera e gessato grigio molto famiglia Soprano ed un preoccupante gonfiore all'altezza dell'ascella sinistra. Due fessure senza espressione al di sotto dell'unico sopraccilio che inquadrava la fronte rugosa ci esaminarono lentamente, poi le carnose labbra caucasiche bisbigliarono: " Italijanzi?". "Da" fu la nostra stringata risposta imposta dalla temperatura che consigliava di accelerare i tempi. Mentre la nostra preoccupazione aumentava, l'armadio si piazzò davanti alla porta con le gambe ben piantate per non perdere l'equilibrio e dopo averci fatto segno di non aver fretta, piegò il testone leggermente di lato, si mise una mano sul cuore, proprio sopra il gonfiore sopspetto e con voce stentorea cominciò in un italiano inficiato dal pesante accento : "Lasciatemi cantare, con la chitarra in mano, lasciatemi cantare, sono un italiano, ecc." La performance durò ben oltre i tre minuti canonici impiegati da Toto Cutugno e quando arrivò al termine il cerbero aveva le rosee gote imperlate di sudore nonostante la camiciola. Poi ci strinse a lungo la mano e ci accompagnò all'interno nei meandri del night club deserto. Mangiammo Italijanski salad , borsch e sashliki di barano molto teneri. Il montone del Caucaso è noto per la sua carne delicata.

Luna ingannatrice

Si era da poco dissolta l'URSS e l'inverno del '93 non era particolarmente rigido per la Bashkiria. Eravamo partiti da Ufa verso le 4 mentre il buio della notte invernale era quasi sceso completamente e la luna faceva capolino dagli Urali poco lontani, circondata da un gelido alone . Koljia, l'autista, era un buriato con la faccia schiacciata da orientale che lo facevano apparire senza espressione. L'ingegnere capo Komarov era seduto davanti e ciondolava la testa, particolarmente allegro. Io e Gianni, dietro con una valigia in mezzo che serviva anche d'appoggio per le lunghe ore di viaggio. La Zigulì correva spedita lungo la strada deserta e gelata, circondata da interminabili foreste di betulle bianche, coperte di neve e ghiaccio. " Vedi, Koljia, tu non ti puoi rendere conto di come sia in Italia. E' un altro mondo, tutte altre possibilità. Noi qui viaggiamo per ore nel nulla e ci siamo portati dietro solo una scatola di cetrioli salati in composta; laggiù, quando vuoi ti fermi in certi posti lungo la strada che si chiamano Avtogril e lì c'è tutto. Tutto quello che puoi sognare". "Ma come tutto?" gli occhi di Koljia sembravano due fessure . "Tutto. Ci sono le pompe della benzina; 10,20 pompe diverse e tu puoi prendere tutta la benzina che vuoi" "E sì, se conosci il responsabile delle pompe..." ridacchiò l'autista."No,no, tu ti fermi, dici -pieno- e ti mettono tutta la benzina che vuoi fino a che il serbatoio trabocca". " Ma non ha senso, allora tutti andrebbero con il bagagliaio pieno di taniche da riempire e non solo con una come noi!". "Ma testone, non servono le taniche; se te ne serve altra, ci vai domani" . "Ma ingegnere capo Andrej Ivanovic, allora non servirebbe neanche tenere la scorta a casa" . "Appunto. Ma questo è solo l'inizio, se vai nel negozio, ci sono ricambi per tutti i tipi di macchine, che saranno più di cento in Italia" Il buriato ciondolava la testa per non contraddire il capo e intanto pensava ai tergicristalli tenuti gelosamente sotto il sedile per evitare i furti. "E poi il Restaurant, anche lì non cci sono solo te e butterbrodi di cetrioli, ma puoi avere cosa vuoi, Coca Cola ,patate, caffè, tutta roba buonissima e poi viene il bello. Non puoi uscire da dove sei entrato, ma devi fare un giro dentro tutto il Markiet perchè così ti viene voglia di comprare qualcosa, me lo ha spiegato Djanni che ci accompagnava". "Ma a che serve? Io avrei già voglia di comperare tutto! E cosa c'è da comprare?" "Ogni cosa, montagne di salami, vino, liquori di tutto il mondo" "Anche Amarietto?" disse Koljia con occhio languido. "Certo e formaggi a mucchi, di venti, forse trenta tipi diversi; uno puzza talmente che non lo puoi toccare...pravda Djanni, diteglielo voi?" "Pravda, Pravda" rispose Gianni aprendo un occhio assonnato. "Ma a che servono tutti quei formaggi diversi, ingegnere capo Andrej Ivanovic, e quello che puzza chi se lo mangia?" "Ma non capisci niente! E' il progresso Koljia". "E a Venezia ci siete andato?" "Certo anche sulla gondola, ma lì le case sono tutte vecchie e rotte. Guarda qua invece, la foto che ci siamo fatti con Dmitri Vitalievic Fiodorov all'Autogrill vicino alle pompe di benzina. Guarda quante." Koljia sbirciò la foto tenendo d'occhio la strada, poi si richiuse nel suo riserbo consueto. Komarov, si allungò sul sedile, estrasse la bottiglia di vodka Na Traix dal vano portaoggetti e ne bevve un bel sorso. Poi sorrise. "Se prendiamo l'altro impianto, si va di nuovo in Italia, eh, gospadin Enrico? E poi l'ho già detto a mio figlio, appena finisce quel cavolo di Università, lo mando a Mosca. Conosco un sacco di gente lì e potrebbe anche farcela con un po' di appoggio, come quel suo amico, quel ragazzo di Nalcik che in pochi mesi fa già il cameriere capo al MacDonald nella Majiakovskaia...". Arrivammo a Jangantau che era già notte fonda, uscendo dalla macchina infreddoliti e assonnati. La luna era alta e luminosissima nel cielo sopra le betulle.