Il contratto fu firmato e allora via, in giro per l'Italia a cercare le acconce autoclavi, filtri, mixer (appunto per mescolare acqua, vino e alcool), un impianto completo per purificare l'acqua, un laboratorio analisi, riempitrice gigante isobarica, etichettatrice, depallettizzatore per le bottiglie vuote e pallettizzatore per quelle piene e così via cantando. In pratica dalla pressa e stampo per fare il tappo (rigorosamente di plastica) al pallet di cartoni di bottiglie avvolto di cellophan. Un impianto colossale, che data la fretta (ci misero mesi a decidere, ma poi vollero tutto e subito) doveva essere spedito via aerea. Pensate a tre colossali autoclavi che a malapena stanno su tre TIR! Ci vollero due enormi Antonov (tipo quello che cadde a Torino) che portavano cadauno l'equivalente di 12 camion (o 8 carri armati a scelta) e un Iliuscin più piccolo con le macchine minute che partì da Genova con un piccolo gruppo di tecnici. Ricordo Stefi nel posto del mitragliatore, quello tutto di vetro sotto la carlinga epoi sul sedilino sotto la scaletta di legno, e Beppe su un sedile di fortuna di fianco alle reti che trattenevano le casse, con la 24 ore sulle ginocchia, come un para in attesa del lancio su Guadalcanal. Solo il saturatore per produrre CO2 (per le famose bollicine) dovette essere inviato via terra, sugli aerei non ci stava. Lo stabilimento che avrebbe ospitato l'impianto era colossale, pari a 22 campi di calcio coperti; pare avesse ospitato una fabbrica di carri armati, ma nel disfacimento sovietico bisognava produrre roba più utile e le bollicine sono particolarmente richieste tuttora in Russia. Il nostro impianto pur enorme, sembrava sorprendentemente piccolo, quasi perso in quegli smisurati saloni in cui si concludeva la ristrutturazione. Mentre sorgeva a poco a poco e le macchine prendevano forma, la brigata delle muratrici sovietiche finiva di imbiancare i soffitti; le ragazze, in gran parte di generose dimensioni, appese precariamente con corde come salame da sugo, agitavano i lunghi pennelloni schizzando a destra e a manca i nostri valenti montatori, distratti soltanto da quelle di forme più umane che passavano con le latte strabordanti colore come le occhiate infuocate che lanciavano in tralice transitando tra motteggi misurati. La linea pian piano prese forma; infine, a macchine pronte cominciò a scorrere il liquido vitale, il nettare prezioso ragione stessa della fatica, preparato con cura e inviato verso la sua destinazione naturale, la bottiglia. Ai nostri uomini vennero dunque affiancate le maestranze locali per addestrarli alla conduzione delle macchine. Precisato che il prodotto in questione era ed è perfettamente conforme alla legislazione russa in materia, il suo cammino verso la bottiglia è giocoforza lungo e tortuoso. Dopo la lunga e accurata preparazione (le famose 12 ore in autoclave) i prodotti erano amorevolmente mescolati, aggiunti di zucchero, aromi e bollicine per andare direttamente alla riempitrice. Ora, è risaputo il rapporto di amore e fratellanza che lega queste genti della steppa ai liquidi di ogni genere con percentuali alcooliche, per cui il cannello di pescaggio della riempitrice agiva come un richiamo irresistibile per alcuni di loro, specialmente i più vicini. In particolare l'addetto all'etichettrice, di tanto in tando riteneva indispensabile controllare la costanza di flusso alla macchina, che come si sa non è bene far girare a vuoto, e transitava con costanza nei pressi della stessa succhiando dal cannello per assicurarsi della presenza di liquido. Certo dopo poche ore il rendimento del suo lavoro diminuiva verticalmente e il numero dei suoi controlli aumentava in proporzione. Preso più volte ed ammonito col cannello in bocca, mentre guardava con occhi spalancati a dire che doveva pur controllare che tutto fosse in regola, fu licenziato con disonore, ma dopo poco obbligammo il direttore, preso anch'egli in un rarissimo momento di lucidità, a riassumerlo in quanto era l'unico che aveva capito il funzionamento dell'etichettatrice, macchina delicata che vuol essere trattata da mani amorevoli e competenti. Comunque a poco a poco il progetto andò in porto, le bottiglie arrivavano, i tappi erano stampati, l'acqua depurata, lo "champagne" prodotto, i cartoni costruiti, riempiti di bottiglie, nastrati e pallettizzati, mentre nel cuore dell'impianto, il riempimento, l'ideatore della macchina, un caro amico, che ormai da qualche anno riempie bottiglie per chi non ha più sete (ma anche lì avra trovato qualcosa da imbottigliare spero), chiamato dai russi Pavarotti per la sua somiglianza strutturale, dirigeva l'orchestra dettando i tempi ed il dipanarsi dei ritmi musicali del flusso ininterrotto delle bottiglie. Che suono avvolgente. Il tintinnio delle bottiglie che incolonnate, sbattendo leggermente tra di loro si avviano alle macchine col sottofondo ritmato della pressa che snocciola tappi; il nastro scivoloso che avvia i soldatini al riempimento, mentre il liquido, spumeggiante appunto, fluisce festoso al serbatoio della macchina che in un continuum spazio-temporale, lava, riempie e tappa. Poi la schiera prende un altro ritmo, più concitato, prima la gabbietta, poi il capsulone poi lunetta, etichetta e controetichetta, mantre a lato il suono profondo della formacartoni allarga, forma, inserisce, infine colma di bottiglie e porta al gran finale rossiniano dove tutto si fonde nella sinfonia del grande pallet che ruota vorticosamente avvolto e infine deposto assieme alle centinaia di suoi fratelli nel grande magazzino in attesa di essere caricato. Il lavoro era finito ed emergeva uno dei problemi principali dell'impresa, i furti. Così l'azienda aveva previsto 50 uomini per la produzione e 150 per la security e ogni sera, quando il bus ci riaccompagnava in albergo al passaggio del gate, barriere e filo spinato con sentinelle armate, veniva perquisito in cerca di preziose bottiglie fraudolentemente carpite dagli amatori. Festeggiammo a lungo in albergo anche se la prima bottiglia stappata, quasi provocò una vittima. Le bottiglie infatti, provenienti da una vetreria del Caucaso (altri 3000 km di viaggio) avevano un collo di dimensioni alquanto variabili ed i tappi erano venuti un po' troppo grossi, così che quel maledetto primo tappo non voleva venir fuori a nessun costo, per quanto mani robuste tentassero di estrarlo. Poi, a forza di scuotere qella benedetta prima bottiglia, il manufatto plastico partì come un proiettile ed passando dalla finestra aperta andò a colpire un passante sul marciapiede opposto che, benchè offeso fu convinto a non sporgere denuncia in nome dell'amicizia internazionale. Bollicine a fiumi quella notte, il nettare sublime era stato chiamato Monferrat, come recitava l'ambiziosa etichetta e pare che, specie nella versione alla banana, circoli ancora nella Russia liberata dalla tirannide.
mercoledì 20 maggio 2009
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