Tirato per i capelli da un gruppo di fedeli lettori, ormai appassiona-tisi alla saga dello champagne degli Urali, vado a stendere la terza e ultima puntata, un prequel che illustra la fase preparatoria della spedizione dei materiali e i fatti immediatamente successivi. Infatti, come si suol dire, è facile firmare i contratti e incassare i milioni di dollari, il problema è che poi qualcosa che funzioni bisogna pur spedirlo e montarlo, se no, non ti lasciano tornare a casa. Mettere insieme un impianto di queste dimensioni, assemblando macchine comprate in mezza Italia, non è semplice e la logistica della spedizione, una volta affittati i giganteschi Antonov che dovevano contenere nei loro ventri capaci delle preziose attrezzature che avrebbero trasformato il vinotto di Crimea, opportunamente sposato ad acqua, alcool, aromi e CO2, in nettare frizzante, prevedeva la formazione di una brigata di una ventina di tecnici montatori al seguito. Questo gruppo disomogeneo, ma motivatissimo dai racconti di qualche veterano, sulle delizie che avrebbero lenito la permanenza sul suolo della Santa Madre Russia, era formato da un gruppo di veneti, alcuni emiliano-lombardi e uno zoccolo duro di piemontesi dell'area del moscato, coordinati da una Stefi motivata al massimo. Ma, come sa chi si è occupato di maestranze in terrae incognitae, per tenere alto il morale della truppa, oltre alla promessa delle delizie di cui sopra, sono necessarie delle razioni di sussistenza che, calmando lo stomaco, rendano più fioco il richiamo della patria lontana. E' quindi vitale aggiungere alle macchine, uno o meglio due bancali di materiali mangerecci tipici, montagne di spaghetti (n.5), sughi e salumi, proporzionati alla durata presunta della permanenza in cantiere. Stefi, pur vecchia del mestiere, era opportunamente stimolata dal capo cantiere, un gentile personaggio a cui Pecèèètto Torinèèse aveva dato i natali, oltre ad un fortissimo accento gianduiofono, il quale, inviato a controllare la chiusura definitiva delle gigantesche casse che contenevano l'intera linea (si dimentica sempre qualcosa), arrivò in ufficio di corsa a chiedere udienza con occhio umido. Era il momento più temuto, forse mancava un pezzo importante della gabbiettatice o i ricambi della nastracartoni o la mano di presa del depallettizzatore o peggio di tutto, il famoso carrello dei ferri, un pozzo di San Patrizio di chiavi inglesi di ogni tipo, chiavi a pappagallo, tirabulloni del 12 e ogni altro ben di Dio da officina che era proverbialmente guardato con bramosia feroce dalle maestranze locali e che, al termine del montaggio, per tradizione, veniva lasciato rubare per un tacito accordo, previsto nel caso nulla fosse stato rubato prima. Ma c'era tutto, qual'era la mancanza dunque? Il nostro pecettese si avvicinò e con cortesia, ma a bassa voce, per non disturbare troppo esalò: "Ma, Stèèèfi, non abbiamo pensato al parmigiano". C'era, c'era naturalmente, una mezza forma che per sfuggire agli occhiuti doganieri era stato sapientemente occultato da Pavarotti (vi ho parlato precedentemente di questo buon Reggiano) all'interno del Cip, un grande contenitore di acciaio che era stato opportunamente riempito anche con centinaia di bottiglie di lambrusco, carburante indispensabile ed apprezzato anche dalla schiera veneta e celate con cura in anonimi cartoni perchè non sbattessero troppo. Gli aerei decollarono portando con sè anche i due tecnici delle etichettatrici, al battesimo del volo, ben legati nei seggiolini tra le casse. Uno in particolare, di giovane età e di poca esperienza, si rifiutava assolutamente di partire ed era stato convinto dopo un testa a testa con un veterano che gli aveva illustrato con dovizia di particolari i lati piacevoli della terra degli zar; al termine fu dura costringerlo a tornare a casa, ma i giovani si sa, son facili agli innamoramenti improvvisi. Effettuato lo sbarco, prese le teste di ponte possesso del territorio, sfuggite le masserizie principali agli uomini della dogana che si aggirarono per un paio d'ore alla ricerca di qualcosa di interessante, sviate da una Stefi ormai usa a questi depistaggi, si prese possesso del campo di lavoro, dove gli acquirenti avevano pensato a tutto per redere più gradevole la permanenza agli amici italiani, incluse due toilette nuove di zecca rivestite di piastrelle e sanitari provenienti direttamente da Sassuolo. Purtroppo, il primo giorno di lavoro, uno dei dei componenti della brigata dei muratori russi, non conoscendo l'uso del suddetto ambiente, riempì entrambi i buchi di cemento a presa rapida, vanificando il bel gesto di benvenuto. Per tutto il tempo si dovette quindi utilizzare il locale raffigurato a lato, tirato su in fretta e furia, mentre per i primi giorni ci si dovette arrangiare alla belles etoiles. Il vantaggio fu che le permanenze in loco erano brevissime per evitare di cadere tramortiti nella cavità. Del muratore non si seppe più nulla, né nel gulag dove ancora oggi probabilmente sverna.
giovedì 28 maggio 2009
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