Godendomi questa immagine di pane che ho preso a prestito dall'interessante blog di Bressanini, che si sta facendo alfiere di un movimento per abolire la parola naturale dal vocabolario agricolo-eno -gastronomico -alimentare di cui vorrei farmi parte attiva, non poteva tornarmi alla mente un particolare del mio passato legato al pane di cui passo a farvi menzione. Come ho già avuto modo di raccontare, in URSS abbiamo venduto un po' di tutto nei tempi eroici, così oggi mi punge la nostalgia di quando sono stato panettiere (o quanto meno ho dato il mio contributo laterale alla crescita dell'arte bianca, come si suol chiamare). Una importante fabbrica di vodka (tra le poche attività che erano cariche di cash in quel periodo, eheheheh) aveva deciso di differenziare la produzione, un sano principio economico incentivato dalla perestroika, che li aveva portati alla decisione di aprire un panificio da 30 quintali di pane al giorno. Come sempre ci prendemmo l'incarico di trovare tutte le macchine necessarie. Sì, il pane non si fa impastando amorevolmente la farina e l'acqua con le manone forti di un omone sporco di bianco, ma con tutta una serie di macchine in acciaio inox, setacci, impastatrici a pianeta, spezzatrici, filonatrici, e molte altre fino ai forni finali. Lo so che disturbo una visione bucolica, ma se volete mangiare in maniera decente e igienica, si fa così, anche se qualcuno sogna e descrive con rimpianto malghe boschive in cui ci si fa largo tra le cacche delle pecore. Mentre si montava l'impianto, come da contratto, arrivò in Italia l'atteso responsabile del futuro panificio di cui avevamo richiesto tassativamente la presenza per un training di una settimana presso un nostro panettiere, affinchè, sapendo cosa si dovesse fare praticamente, non mandasse subito tutto in vacca. Avevamo trovato un gentile signore che, coi due figli gestiva un panificio tra Verona e Vicenza. Così in un mezzodì autunnale, eccoci a Linate ad aspettare l'arrivo del tecnico, io e Stefi che l'avrebbe affiancato per superare lo scoglio russo-veneto, un gap insormontabile per la famigliola tecnicamente preparatissima, ma che si esprimeva solo in un veneto strettissimo. Aperte le sliding doors degli arrivi, dopo che tutti i passeggeri se ne erano andati, rimase, ultimo il nostro uomo. Come si dice di solito, perchè al nostro occhio pur abituato, comparve una sorta di Tamara Press completamete inguainata in strettissimi fuseau fosforescenti che accentuavano indecorosi rotoli, testimoni di una pervasiva dieta di votka, patate e burro, sormontata da una complessa incastellatura bionda, studiata con cura per le grandi occasioni. Stupiti ma non troppo, la accogliemmo con i consueti baci ed abbracci, dirigendoci, caricato il valigione corrispondente verso il luogo di lavoro, dove la famigliola ci attendeva festosa per iniziare l'addestramento, inclusi i figliuoli, particolarmente garruli, in quanto preavvertiti dell'arrivo di una Russa in carne ed ossa. Il fatto che il lavoro iniziasse verso mezzanotte proseguendo fino alle otto di mattina, ora in cui padre e i due figli crollavano di stanchezza per lasciare il posto alla mamma che, nel negozio, faceva fuori tutta la produzione notturna nel resto della giornata, per ricominciare la sera, lasciò interdetta la nostra Tamara, che si attendeva al più qualche ora di spiegone dei libri di istruzione, accuratamente tradotti dalla stessa Stefi, la quale, se pur intimorita dal pallore mortale dei due giovani figli che non vedevano la luce del sole da anni, si integrò subito nella situazione , dettando con cura i tempi di lavoro. Inizio alle 23:00 con studio delle macchine, preparazione del pane fino alle 5 di mattina , cottura e sfornamento, gestione del prodotto finito e infine meritato riposo per i previsti 7 gironi di contratto. L'occhio spaventato della nostra amica si aggirava qua e là, mentre il corpaccio si faceva largo tra l'acciaio impersonale del panificio e io li lasciai così, una povera matrioska basita e quasi avulsa, presa tra il pigolare veneto dei panificatori e l'allegria dinamica di Stefi che ormai sguazzava tra michette e grissini (sì c'era anche la grissinatrice tra le macchine fornite). Giocoforza dovevo andare verso altri importanti incarichi e sarei venuto a ritirarli terminata la settimana di duro training. Come prevedibile, Tamara scoppiò dopo la seconda notte e, lasciando nello sconforto i panificatori, disperati di non aver potuto trasmettere i loro segreti pastari, pretese di essere portata a Venezia, sogno imprescindibile di ogni Russa che si rispetti, dove si lasciò trascinare lungo i canali avvolti nella incipiente bruma autunnale, in una gondola in odore di affondamento ad ogni colpo del remo sullo scalmo, mentre a poco a poco l'occhio sognate e amoroso, scordava l'insulto delle notti bianche (per la farina e per la mancanza di riposo). Ripartì serena e non la rivedemmo all'inaugurazione.
martedì 26 maggio 2009
Notti bianche.
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