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sabato 14 novembre 2009

Buchi nella neve.


Alexiej era di una magrezza preoccupante. Ne avevo già parlato nel Rasoio a due teste, ma la sua somiglianza a come mi figuravo il Raskol'nikov di Delitto e castigo era talmente perfetta da lascire senza fiato. La barbetta rossiccia, le guance incavate, gli zigomi alti e sporgenti e gli occhi soprattutto, infossati e neri, come febbricitantinell'ansia di mettere in piedi un affare, un contratto, qualcosa che producesse almeno una piccola prebenda per uscire da una evidente indigenza, segnalata dal baschetto sdrucito di pelle nera e dal cappotto liso col bavero alzato per ripararsi dal gelo che a fine febbraio mordeva duro. Era lo specchio di quella Ukraina ormai tecnicamente indipendente che la stupidità della folla osannante chi predicava le divisioni, stava indebolendo allo stremo. Era l'unico paese dove il rublo che ormai dappertutto era considerato carta straccia, faceva premio sulla moneta locale, anzi su quello che rappresentava la futura moneta , la grivna, non ancora pronta e che gli ukraini favoleggiavano fortissima e già stampata per essere distribuita a breve a copertura di uno strepitoso benessere collettivo. Così circolavano i cosiddetti Cuponi, dei rettangoli in tutto simile ai soldi del Monopoli per dimensione, colori e tipo di carta. con la sola differenza che erano stampati da due parti. In poche settimane erano scesi a un cinquantesimo del loro valore iniziale e nessuno li voleva. Alexiej me ne fornì una serie completa da 1 a 200.000, un bigliettino giallo con cui pagammo il caffè con un biscotto sabbioso con cui tentammo di rifocillarci subito dopo l'arrivo. La barista, che appoggiava sul bancone sporco la sua ottava abbondante, a cui osammo se era buono, ci guardò con curiosità. Arrivavano pochissimi stranieri a Kharkhov, fece un sorriso triste e dichiarò che nel paese da cui venivamo non lo avrebbero dato neanche ai maiali e portò via il suo peso consistente, assieme ai 200.000 cuponi, ciabattando lungo il corridoio. Mentre giravamo da un incontro all'altro, la città si spiegava davanti a me, indifesa nella sua debolezza di economia ferita, in stato preagonico. Un vecchio centro con antichi palazzi ottocenteschi e grandi viali privi di macchine dove sbuffava qualche camion fumoso e qualche raro filobus affollatissimo. Davanti alle molte chiese, le piccole piazze disegnate con cura da architetti di un tempo, erano spesso occupate da residuati bellici, autoblindo e carri coi cingoli rotti, muti testimoni di una ferita mai chiusa , di una guerra che ha ucciso qui come in nessun altro posto; un ricordo che ancora faceva chinare il capo al solo accennarne. E qui file di vecchie donne con la mano tesa in silenzio a chiedere un elemosina da chi forse non aveva di che sfamare esso stesso. Il nostro Alexiej aveva sempre in tasca un mazzetto di cuponi da 5 e da 10 e li distribuiva lentamente, uno per ogni vecchina, che gli facevano un cenno di benedizione con la mano, mentre dall'interno della chiesa saliva forte la voce salmodiante del pope. Tutti i pochi rumori della città erano comunque attutiti dalla neve che continuava a scendere piano e il grande lago del parco centrale, coperto di puntini neri, lontani, i pescatori che rimanevano ore su uno sgabellino davanti ad un buco nel ghiaccio, pareva una immensa, bianca stuoia di feltro dove le nostre suole faceva scrocchiare la neve ad ogni passo. Alexiej aveva una voce bassa e profonda e parlava lentamente, scegliendo con cura le parole; tossiva spesso, girandosi di lato come per scusarsi, con gli occhi tristi, febbricitanti. Pensai che non avrebbe passato l'inverno. Mi hanno detto che adesso è proprietario di cinque farmacie e rappresenta una multinazionale del farmaco e va in vacanza in Sardegna, quando può.

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