La neve non è uguale da tutte le parti, anche il bianco sembra diverso. Nelle grandi pianure del sud russo ha un senso di sfinimento, di pace eterna, di incombenza genetica. Non nevica quasi mai, così almeno sembra, ma tutto quello che ti circonda è sempre bianco contro un cielo grigio e non ci sono neppure le sconfinate foreste di betulle bianche, solo spazi senza fine prima del piccolo segno di alture lontane. Poi si raggiunge di nuovo la città. Cerkiesk era, allora per lo meno, una cittadina della provincia estrema, pur nominandosi pomposamente capitale della piccola repubblica autonoma, ma priva di caratteristiche distintive. L'uniformità architutturale sovietica la rendevano indistinguibile dalle tante città sparse dell'universo socialista che si apprestava a diventare ex-socialista. In periferia, lunghe teorie di falansteri cadenti a quattro piani, file ordinate di krushove, le case approssimative del periodo del disgelo, costruite in fretta e raffazzonatamente, ancora più grigie delle altre ed un centro anonimo con qualche casa più massiccia di inizio secolo prerivoluzione. Ma la città era dominata da un grande complesso industriale, con enormi ciminiere che spargevano allegre nell'aria, un pesante odore di fenolo, il prodotto principale. Era il Zavod Kimik (in russo fabbrica è di genere maschile, forse per rimarcarne l'importanza) proprietaria anche della specie di albergo dove alloggiavamo e di molte realtà cittadine. Il cuore produttivo pulsante, dove avevamo appuntamento con il presidente, forse l'uomo più importante della città in quel momento. Percorremmo i larghi spazi interni della fabbrica penetrandone i meandri per raggiungere la palazzina di comando. Era un dinosauro cadente, ogni cosa ricoperta di ruggine affastellata in scheletri di capannoni fatiscenti. I rari operai si aggiravano infagottati con movimenti lenti, intorpiditi dal freddo a lasciarne indovinare la produttività improbabile. Annunciati da uno stuolo di segretarie pigolanti, avemmo infine accesso all'ufficio del Padrino, così era chiamato da tutti, diceva Andrej. I russi erano allora affascinati dalle storie di mafia e la Piovra era stato uno dei successi epocali, con tutte le signore innamorate perse del commissario Catania (così era stato modificato il nome per maggiore appeal). L'ufficio era immenso, un salone semi vuoto dove, al fondo torreggiava una gigantesca scrivania sovietica. Queste ultime erano di tipo particolare, grandi e sopraelevate, avevano davanti, accostato più in basso, un tavolo, disposto ortogonalmente a T, dove prendevano posto sottopancia di vario tipo e grado a prendere appunti, ordini o semplicemente ad ascoltare a testa bassa. La lunghezza del tavolo dipendeva dall'importanza di chi era alla scrivania, nel nostro caso era lunghissimo con almeno dieci sedie per lato. Credo che si fosse tentato di importare nelle sedi del PCI questo modello di ufficio, dai dirigenti che avevano, ai tempi, frequentato le scuole di partito a Mosca, ma non funzionò, troppa frizione con la mentalità italiana e credo fosse subito stato cassato. Di lato, un poco discoste, un paio di sedie vuote, occupate alla bisogna dai commissari politici che dovevano presiedere ogni seduta e stilare apposito rapporto. Eh, i bei tempi stavano cambiando rapidamente. Il padrino impegnatissimo, ascoltava e dava ordini secchi in telefono nero di uno dei sette od otto enormi apparecchi di diversi colori, che occupavano il tavolo di fianco alla plancia di comando completamente vuota, tranne un foglio bianco per gli appunti appoggiato nel centro. Con voce bassa, diede alcuni ordini secchi al suo interlocutore, prima di posare con attenzione la cornetta nella sua sede, quindi, finalmente alzò gli occhi su di noi.
mercoledì 4 novembre 2009
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