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martedì 10 novembre 2009

Neve bianca.


Torniamo allora nel Nord del Caucaso, dove nel frattempo era arrivata la domenica di meritato riposo. Il pulmino ci passò a prendere la mattina presto con Andrej e la moglie Larisa che, benchè gradevole, amava definirsi una staraija kuritza, una gallina vecchia (infatti la mollò qualche anno dopo, appena messi insieme quattro soldi, in cambio di una slavata segretaria di primo pelo). La strada prese subito una lunga e selvatica valle laterale, verso le montagne sotto una fitta nevicata, mentre Zhenija si era messo dietro a sonnecchiare; aveva l'occhio sorridente, di certo sognava un soggiorno premio a Kislovosdk a riposare, steso sulle poltrone del sanatorj, bevendo Barjomj la regina delle acque minerali, salata e lassativa come nessuna altra. Sul fianco della montagna, una piccola cappella ortodossa abbandonata dominava la valle dove il torrente Teberda scivolava sotto la neve. Forse un tempo ci abitò qualche monaco, poi spazzato via dalla rivoluzione o più semplicemente dall'inedia. Ci fermammo ad una cava di marmo di cui si aveva notizia che avesse bisogno di macchine per il taglio delle pietre per unire comunque l'utile al dilettevole. In una baracca di legno un vecchio guardiano stranito ci accolse timoroso, continuando a ripetere una litania di "non so". Il direttore, se mai avesse messo piede in quel angolo perduto, se l'era filata a Mineralnije Vady, terrorizzato di incontrarci e di compromettersi in buono stile sovietico. La cava in pratica era abbandonata, con qualche vecchio macchinario ad terminare di arrugginirsi sotto la neve e una montagna i cui filoni erano stai devastati dalle esplosioni. I furbacchioni, non avendo più macchine per il taglio, avevano minato quasi tutta la montagna per sbriciolare il marmo in pezzetti da quattro/sei centimetri per fare dei piastrelloni di conglomerato. Non era più possibile ricavare marmo sano, la cava era irrimediabilmente rovinata. Il guadiano ci guardò ripartire prima di tornare a dormire nella sua branda con la bottiglia di vodka che gli avevamo lasciato. Arrivammo in un paesotto alla fine della valle, fino a poco prima era una piccola stazione sciistica, si intravedevano ancora lo scheletro di una seggiovia monoposto e un piccolo skylift. Tutto fermo e fuori servizio. Andrej era deluso, voleva mostrarmi le bellezze della zona e parve spiaciuto di tanta desolazione. Invece il posto era straordinario, completamente selvatico ed abbandonato con la neve che cadeva leggera sulla parete ripida della montagna, chiusa sul fondo della valle solitaria, con le immense foreste di pini che scendevano fino al torrente dove c'erano tracce di cervi, che forse all'alba erano scesi a cercare qualche ciuffo di erba secca risparmiato, lungo i massi della riva. Si sentiva solo il rumore dei fiocchi che si depositavano adagio e l'odore della neve. Anche i cetrioli salati e i pomodori bulgari in scatola che Larissa aveva portato per il picnic, parevano buoni e saporiti, così stesi su una fatta di pane nero e gustoso. Sognava di andare all'estero, Larisa, ma era stato solo in Bulgaria e come si diceva allora nell'URSS, - Kuritza nié ptiza, Balgarija nié za granìza- la gallina non è un uccello, la Bulgaria non è estero, rispondendo con commiserazione, anche se con un po' di invidia repressa, a quanti riuscivano ad avere una putijovka di due settimane sulle spiagge del mar Nero. "Ocin kushna" le dissi con complicità; non perdevo occasione di sciorinare le poche parole che cominciavo a mettere insieme. Sembrò contenta, anche se non aveva negli occhi quella luce bramosa che le era brillata quando le diedi la scatola di profumo di Armani che avevo portato con me dall'Italia, assieme ad altre cosette da regalare qua e là. Tornammo a valle mentre l'oscurità scendeva di colpo e la nevicata si faceva più fitta.

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