Riprendiamo da dove eravamo rimasti. Una mattina invernale, un solicello pallido e malato, le montagne del Caucaso fuori dalla finestra con i vetri doppi un po' appannati che non si aprono mai, con il finestrotto in alto per avere un po' d'aria ogni tanto e una colazione a base di insalata italiana (russa, ma là si chiama così) e crepes ripiene di carne tritata e verdure. La cuoca si poteva definire rigogliosa e sembrava contenta di far provare le sue cose a questo occidentale con gli occhi un po' pesti reduce da una serata difficile. Ci rimase un po' male quando rifiutai tassativamente un cognac armeno di dieci anni, una vera chicca, ma assolutamente superiore alle mie forze. Quella mattina ci aspettava una visita ad un kolkhoz nella pianura e la strada era scivolosa, anche se non ero io alla guida. Non c'era nessuno in giro, forse era ancora presto, forse l'inverno russo prevedeva allora una specie di letargo nelle attività, solo la dimensione dei campi deserti e coperti di neve mi suggeriva la differenza, per il resto mi sembrava di essere dalle parti di Pontecurone, con le colline del Pavese lontane e bianche. Il kolkhoz Rodina sembrava un po' in disarmo; sotto un portico malandato oppure direttamente nel cortile coperti di neve, decine di macchinari bisognosi di molte riparazioni, arrugginivano tranquilli in attesa dell giorno del giudizio. Il direttore era paro paro un fattore delle nostre parti, ma con un colbacco grigio, molto consumato calato sulle orecchie, che pizzicavano parecchio sulla punta. Saranno stati i meno dieci, eppure il sole dava un senso di finto ed ingannevole tepore. Dopo i saluti iniziò subito la serie delle lamentazioni, tutto uguale alle mie visite in campo nell'alessandrino, quando dovevamo ritirare il seme di frumento, i prezzi in calo, i concimi in aumento, il governo che se ne frega. Certi topoi sono identici in tutte le culture, forse geneticamente propri dell'uomo. Dopo aver convenuto che non si poteva andare avanti così e magnificati con nostalgia i bei tempi andati, andammo a vedere una partita di semi di festuca, un migliaio di quintali, che avremmo potuto ritirare in pagamento di un piccolo essiccatoio. Soldi non ne circolavavano e il barter sembrava una soluzione praticabile. L'agronomo, con gli occhi assonnati di chi è appena sceso dal letto ci raggiunse nel magazzino delle sementi. Fraternizzammo subito come è d'uso tra colleghi, mentre estraevo gli strumenti del mestiere per sondare i sacchi, facendomi largo tra torme di topi di dimensioni tutto sommato ragguardevoli. Purtroppo non si trattava di festuca rubra come avevo sperato, ma di pratensis di valore molto inferiore ed inoltre piena di infestanti. Prelevai qualche campione, tanto per non deludere, ma ce la filammo, come si dice all'inglese, dopo qualche vaga promessa. I due se ne tornarono lentamente verso la bassa costruzione che ospitava l'ufficio con la schiena curva, stringendo le spalle nei pastrani consumati, sapendo bene che l'inverno più freddo ed i giorni più difficili dovevano ancora arrivare. Il lungo viale che portava alla strada statale era percorso da una fila di gelsi bassi con i lunghi rami filanti coperti di una galaverna spessa e tagliente. Sui campi una nebbiolina bassa e leggera.
martedì 3 novembre 2009
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