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giovedì 10 febbraio 2011

Importante!

Cari amici,

Come la maggior parte di voi sa, questo blog non è altro che uno spazio di nicchia dove, per comodità di consultazione, vengono raccolti tutti post tematici che riguardano la Russia e quella cultura, che pubblico invece insieme agli altri anche nel mio blog generalista Il vento dell'Est. Mi sembrava una soluzione valida per venire incontro a coloro che sono interessati a questi argomenti e che non vogliono perdere tempo con altre cose. Pare invece che al grande fratello (che comunque questi spazi ci concede senza farci pagare) questa impostazione non sia gradita, in quanto la classifica come copiatura di dati che intasa il web, e pertanto la penalizza nei suoi algoritmi di ricerca. Quindi mio malgrado, non proseguo nel dilatare questo spazio. Invito invece caldamente tutti quelli che amano seguirmi, a passare sul mio blog pincipale:

dove continuerò naturalmente ad occuparmi di questi argomenti.
Grazie a tutti della comprensione e vi aspetto di là.

lunedì 17 gennaio 2011

Casa Russia.

Era sulla trentina, faccia aperta, baffi e sorriso allegro, mi sembra si chiamasse Serghiey Odoevskiy, come lo scrittore. Faceva l'autista per noi in quegli anni difficili dove quando arrivavi a Mosca telefonavi dall'aeroporto all'ufficio per dire la targa del taxi che prendevi, dato che la leggenda metropolitana raccontava di stranieri appena arrivati e ritrovati nelle periferie, nudi dentro a un fosso. Chissà se era poi vero o se quei tali, sessantenni strapanzoni sudaticci, avevano pensato che qualche diciottenne con gli zigomi alti e gli occhi da gatta che fa le fusa, si fosse innamorata perdutamente di loro e l'avevano seguita a casa dalla mamma malata. Situazioni normali in cui molti amano credere quello che vorrebbero che fosse la realtà.

Noi, per stare tranquilli, avevamo Serghiey, con la sua Zhiguly malandata che però, lui, ingegnere e appassionato di meccanica automobilistica, manteneva in condizioni accettabili, riuscendo a procurarsi gli introvabili ricambi che la situazione consentiva. Parlava anche un discreto italiano e andando verso il centro raccontava sempre l'ultima barzelletta sui nuovi russi che cominciavano ad infestare gli ultimi brandelli dellUnione Sovietica che stava affondando. Ti rispondeva "Non ci è probliema" anche se gli chiedevi "Che ore sono?". Rideva sempre alla fine, mai sguaiato, con la stessa allegria triste che accompagna questo popolo che ama crogiuolarsi nelle sventure, ma che è fatto principalmente di gente buona. Quella volta che arrivavamo a Domodiedovo da Samara, io e Ste., come sempre stanchi ma curiosi, una coperta bianca ed infinita avvolgeva le foreste di betulle intorno alla strada. Un pallido sole lontano, la faceva risplendere come polvere di diamanti del diadema di una regina del nord. La strada attraversava un piccolo fiume ghiacciato, credo il Pakhra, che si allargava in una grande ansa piatta con qualche piccola formichina nera, pescatori seduti sulla lastra davanti al loro piccolo buco nel ghiaccio. Sulla ripa digradante del mantello bianco, le torri di un piccolo monastero, con un muro basso a protezione dei pochi edifici sparsi davanti al fiume. Un atmosfera resa magica dalla solitudine assoluta, dall'aria frizzante e dai baluginii dei raggi sui candelotti di ghiaccio che scendevano dai tetti.

Ci rimanemmo una mezz'ora, senza parlare, godendo di quell'atmosfera rarefatta, senza inseguire quel pope nero, lontano, che sgusciava da una porticina di un campanile sormontato da una grande cupola dorata a cipolla. La Zhiguly ci aspettava lontana al margine del bosco, ce l'ho ancora nitida nella mente e l'ho rivista l'altro giorno in un vecchio film, Casa Russia, girato proprio lì (non è male se vi capita dateci un'occhiata). Mi ci sono ritrovato di colpo, quasi spostato dalla macchina del tempo. Quando cominciammo a sentire la fitta al petto che segnala che la temperatura è davvero bassa e conviene andare al coperto, tornammo lentamente alla macchina; la bassa periferia di Mosca cominciò ad avvolgerci nel suo abbraccio suadente, mentre la neve fresca che tentava di scendere con fatica, a piccoli fiocchi gelati, crocchiava sotto i pneumatici consumati. Serghiey non parlava più, ma sorrideva. Dopo poche settimane se ne andò per seguire il suo sogno, un officina attrezzata di tutto punto per automobili, che immaginava come un Bengodi pieno zeppo degli introvabili e desideratissimi ricambi.









mercoledì 8 dicembre 2010

Hotel Pekin.


Sono stato a Mosca per la prima volta nel 91. La situazione era irreale e nevicava fitto, nell'atmosfera di semioscurità latente di un novembre che preannunciava un inverno duro. La Moscova era ormai ghiacciata e le code che si formavano come per abitudine davanti ai negozi vuoti, nel lucore giallastro del primo pomeriggio, erano piene di volti stanchi e depressi, mentre le rare macchine giravano per il Kalzò lasciando una scia azzurrognola e puzzolente di carburante malato. L'atmosfera generale mi parve davvero cupa. Usciti dall'ufficio, percorrevamo a piedi le poche centinaia di metri che su un largo marciapiede ci portavano fino alla Gastiniza Pekin. La neve crocchiava soffice sotto le mie suole pesanti, mentre mi stringevo nella dublionka, con la shapka calata sulle orecchie, per trattenere il caldo dolciastro dell'ambiente da cui ero appena uscito.

Non facevo tempo a prendere freddo. Superata la grande piazza semideserta si aprivano, forzandole un po', dato che erano tutte sgangherate, le porte del vecchio hotel staliniano. Il più classico edificio del regime, uno dei sette di stile neoassiro, mutuati dalla visita newyorkese che il dittatore fece negli Stati Uniti e che scimmiottavano lo stile che tanto gli era piaciuto. Il Pekin era il più piccolo dei sette e forse il peggio riuscito con la sua decina di piani e le torri finali sproporzionate, decisamente il fratello minore anche rispetto all'Hotel Ukraina dall'altra parte del fiume, più arioso e composto. Ma la sensazione più tremenda ce l'avevi all'interno, superata la zona cuscinetto tra le porte che divideva la hall dalla piazza esterna cupa e coperta di neve. Le solite tristi incombenze al pesante bancone dove stanche addette ti facevano il favore di ritirarti i documenti vari e ti consegnavano di malavoglia il passport interno, poi te ne andavi verso gli ascensori , quasi tutti rotti per arrivare al tuo piano.

Qui, se avevi fortuna trovavi la dejurnaia, la capa del piano, il più delle volte addormentata su un divano di similpelle slabbrata e quando, incattivita dallo sgradito risveglio, ti consegnava la chiave, andavi, senza disturbarla più oltre, a cercarti la camera lungo gli enormi ed infiniti corridoi. Poi ti rinchiudevi nella stanza gigantesca. Tutto doveva essere grande e maestoso quando l'albergo era stato costruito; le dimensioni dovevano evidentemente risultare allo stesso tempo monito e minaccia per chi ne usufruiva o semplicemente le guardava; testimonianza di grandezza, ma anche di severa attenzione. Occhio a quello che fai che il grande fratello ti vede e ti giudica. In ogni momento. Questa era la sensazione. Inoltre si favoleggiava che dappertutto ci fossero microfoni e le leggende in tal senso si sprecavano, anche se nell'agonia finale del regime, credo che tutto fosse un po' lasciato a sé stesso e l'incuria generale avesse invaso anche questo aspetto della vita politica.

Al piano terra, in fondo c'era il ristorante, una misera e scarna interpretazione della cucina cinese, sempre scarsamente fornito anche di quei tre o quattro piatti che il deludente menù proponeva, su tovaglie macchiate e stazzonate. Era frequentato di malavoglia dai pochi clienti dell'hotel che al mattino, ci facevano una tristissima colazione a base di cetrioli e smietana, mentre un colossale (tutto doveva essere grande) samovar di acciaio troneggiava in un angolo della sala per il thé. Al sabato sera arrivavano gruppetti o coppie di ragazzi russi per festeggiare qualche compleanno, riempiendo qualche tavolo qua e là, i maschi con le giacchette lise e strette con una rosa in mano, le ragazze diafane e bellissime con le camicette di poliestere trasparenti e le scarpe col tacco che si erano portate nel sacchetto di plastica per cambiarsi gli stivali da neve con cui erano arrivate dalla fermata della metro poco lontana. Aspettavano a lungo dopo l'ordinazione ai camerieri svogliati, ma non sembrava loro importare. Poi si mangiavano con cura gli involtini primavera rinsecchiti e il pollo alle mandorle freddo, guardandosi negli occhi, inconsapevoli e forse disinteressati ai cambiamenti epocali e ai durissimi anni che stavano alle porte, al di là del grande ingresso, mentre la neve continuava a cadere stanca, a soffocare i pochi rumori della notte sovietica.

mercoledì 10 novembre 2010

Hotel Rossija.


E' certo vero che la bellezza è salvifica, ma credo che sia altrettanto provato che l'homo inscipiens sia portato naturalmente al brutto. Se tutto questo può avere un suo senso nei casi emergenziali, bisogna dire che la maggior parte degli scempi viene perpetrata anche e soprattutto quando la lussuria della bramosia economica si accoppia al desiderio di cambiamento e alle necessità contingenti. Alcune delle cose più brutte vengono fatte proprio in questi frangenti. Mosca non fa eccezione di certo a questo assioma, senza parlare delle periferie, che quelle sono orribili in tutto il mondo. Il centro zarista di un tempo aveva di certo una sua unità mirabile di palazzi e monumenti che, nella lucida visione urbanistica ottocentesca, conducevano attraverso un crescendo di solida bellezza alla gemma centrale del Cremlino, facendo di questa capitale una mirabile commistione di grandeur europea pervasa dalla mollezza concessa dai grandi spazi asiatici e dalle suggestioni dei suoi imperi secolari, perfetta mescolanza di raffinatezze bizantine e ferocia mongola.


Proprio ai piedi del Cremlino sorgeva lo Zaryadye, uno dei quartieri probabilmente più belli d'Europa, un insieme apparentemente disordinato di chiese ortodosse dalle cupole orientali colorate e di palazzetti che costituivano un unicum straordinario. Nel suo delirio di potere, al culmine del risultato economico della NEP e del successivo slancio industriale, Stalin decise di raderlo al suolo nel 1935, per costruirvi uno dei grandi grattacieli di stile assiro-americano che tanto lo avevano colpito di New York. La distruzione fu completata appena prima dello scoppio della guerra, come si vede in una cartolina dell'epoca. Quindi, quando si potè mettere mano al progetto erano ormai arrivati gli anni 60. Cominciò allora la costruzione dell'Hotel Rossija, forse la più grande offesa dell'umanità al buon gusto ed alla cultura. Mi ci portava l'amico Ferox, data la comodità della posizione. Arrivavo sempre la sera tardi dall'aeroporto ed il gigantesco cubo nero che emergeva dalla notte ti dava subito un senso di tenebrosa inquietudine. Nell'ingresso squinternato e semideserto si aggiravano losche figure dagli incarichi incerti e sempre in cerca di attività border line nella migliore delle ipotesi.


Al bancone, infastidite incaricate ricoperte di belletti cospicui, controllavano di malavoglia i documenti e la prenotazione ottenuta tramite amici degli amici, che diversamente avere una camera in maniera normale, con una telefonata ad esempio, era impresa impossibile. Con il tuo passi in mano, osservato altezzosamente dal finto facchino che evidentemente svolgeva altre poco pulite attività, ti caricavi il valigione alla ricerca, prima degli ascensori per vedere se almeno uno funzionasse e poi ti incamminavi lungo gli infiniti corridoi resi bui dalle lampadine rotte o rubate, dove si allineavano senza fine le quasi 4000 camere dell'albergo più grande del mondo. Anche la dejurnaija del piano, quasi sempre appisolata su un divano letto sgangherato, non faceva da ultima barriera come suo compito, così ti trovavi da solo la chiave abbandonata su una rastrelliera arrugginita e ti ritrovavi finalmente nella tua camera malandata e squallida. Staccavi subito la cornetta per impedire ai drappelli di signorine, che invece in folti drappelli svolgevano una alacre attività, di telefonarti ogni dieci minuti per tutta la notte, al fine di offrirti un relaxing massage, evidentemente uno dei servizi più richiesti nell'albergo e ti buttavi distrutto dal viaggio nel letto sgualcito in attesa di fuggire la mattina, dopo aver tentato di fare una specie di colazione, in uno stanzino triste, dominato da un gigantesco samovar di acciaio con un thé annacquato e qualche fetta di pane rinsecchita con cetrioli e composta.


Negli anni, mentre il degrado aumentava in parallelo al malaffare, le mafie probabilmente si impadronirono dell'intero controllo dell'edificio. Per evitare il completo cedimento della funzionalità, alcune parti, come pezzi di corridoi, furono cedute a società private che ne fecero dei sub-alberghi, rinfrescandone alla meglio le camere prese in gestione. Così dopo essere penetrato nel mostro ti infilavi in una sottosezione chiamata Hotel Gioconda, gestito da "Italiani" con annesso ristorante detto dei Salernitani, che proponeva "pesce appena arrivato dall'Italia", dove robuste guardie del corpo presidiavano gli ingressi rinforzati, selezionando i clienti attraverso le porte trapuntate. I business più ambigui fiorivano da quelle parti, suscitando credo, robusti appetiti.


Il direttore del Rossija fu infatti presto assassinato tra l'indifferenza generale, come molti responsabili di funzioni in odore di "sviluppo commerciale" in quel periodo. Però su tutto dominava il mostro assoluto di quella costruzione che da un lato ottundeva la vista delle mura rosse del Cremlino, dall'altra sgorbiava irrimediabilmente il lungo fiume, tristissimo e orrendo al tempo stesso. Solo un bombardamente avrebbe potuto risolvere la situazione. Bene, inopinatamente nel 2006 un'orda ruspe salvifiche circondarono il cadavere putrescente e lo demolirono completamente. Oggi l'area, mi dice l'amico Ferox, è circondata da una completa recinzione, in attesa, si dice, della ricostruzione di un'Hotel a 7 stelle per rappresentare meglio l'orgoglio Putiniano e della Nuova Russia. Nessuno conosce davvero il progetto. Forse il nuovo mostro che sta per nascere sulle macerie delle delicate chiesette ortodosse, subirà altre modifiche. Gli appetiti dei vampiri non demordono, anzi si fanno più brutali e famelici, d'altra parte si sa, con la cultura non si mangia, provate a mettere la Divina Commedia in un panino.

giovedì 21 ottobre 2010

Caviale e kognak.




L'autunno a Mosca anticipa, e di molto, le nostre consuetudini. Alla fine di ottobre generalmente, le folate gelide che arrivano da nord, fanno camminare veloci i passanti che tirano su i baveri dei cappotti in attesa della prima neve. Gli alberi dei giardini hanno già perduto quasi tutte le foglie ed i rami, all'apparenza secchi e neri, mostrano al cielo la loro nuda disperazione. Una delle mie passeggiate preferite, terminato l'ufficio, era, girato l'angolo sul Kalzò, di fronte alla massa grigia e severa del vecchio Hotel Pekin, percorrere la Tverskaija che, con una leggera discesa, quasi volesse accompagnare i viaggiatori che dopo un lungo viaggio arrivavano da occidente, ti portava, lenta,come lo scorrere del tempo in Russia, fino alle meraviglie del Kremlino. E' una strada larga e un tempo elegante che invita al passeggio sui grandi marciapiedi su cui sfila ininterrotta la serie dei palazzi della Mosca di fine ottocento, un tempo ricchi ed eleganti.

Qui anche nella Mosca disperata degli anni 90, vedevi brillare gli ultimi fuochi del regime. Quel che rimaneva disponibile delle merci ormai in via di scomparsa, da ogni angolo dell'impero, arrivava qui per essere esibita nei negozi che dovevano rappresentare un lusso nascostamente esibito, al tempo stesso dimostrazione della potenziale ricchezza del sistema e della disponibilità della medesima per il popolo che, nella realtà non aveva effettive disponibilità di accedervi. Nel Dorije morie bianco e blu, potevi vedere qualche pesce secco dal Baltico e qualche cassetta di molluschi, nei negozi Atelier, qualche manichino triste su cui erano appesi vestiti che teoricamente potevi andarti a fare su misura, nei Chasì occhieggiavano ripiani pieni di vecchi orologi che invece di essere dati a riparare come nella mission del negozio, erano esposti in cerca di un compratore. Ma, superata la piazza Pushkin, lungo la leggera discesa, ecco apparire a sinistra, al numero 14, una magia inspettata.In un grande palazzo ridondante di stucchi, si aprivano le pesanti porte dell'Eliseev Gastronom.


Nel 1901, il ricco mercante ebreo di San Pietroburgo aveva creato questo negozio che doveva rappresentare il massimo della offerta gastronomica russa in un ambientazione di sfrenato lusso imperiale. Entrare in questo enorme salone decorato in stile neo-barocco era come fare un tuffo nel passato. Sotto il colossale lampadario di cristalli italiani, si alternavano gli antichi banconi lucidi di ottoni e di legni pregiati, sui quali, a settori, potevi trovare le squisitezze più rare e particolari provenienti da tutti gli angoli dell'impero. Dalla ricca sala dei vini, dove oltre alle più classiche vodke trovavi anche il Kognak Armeno, il pregiatissimo Ararat di 25 anni, passavi alla zona dei salumi, ricca di verietà dove trovavi i più pregiati pezzi del Mijasa Kombinat. Poco più in là sui mogani tirati a specchio, vasetti di composte tradizionali, ordinati come soldatini; sotto i candelabri dorati potevi comprare un barattolo di smijetana fresca e così via, passeggiando tra i banchi per il solo piacere degli occhi, inseguito dagli sguardi delle matrone in grembiule bianco che ti mostravano, indagatrici, i prezzi, stratosferici per i residenti che si aggiravano tristi con la sensazione del guardare ma non toccare. Che bello sognare sotto il grande orologio che scandiva le ore di un passato lontano. Ti sentivi circondato da contessine ed ufficiali in abito di gala, i cui fantasmi si aggiravano ancora guardando languidamente il bancone del caviale, con le sue centinaia di scatolette, i vasetti blu del Beluga prezioso, quelle rossa di Sevruga un po' più grossolane, le gialle del mar di Azov, il caviale rosso, le scatolette di bal'ik di cui era ghiotto il caro Zhenija, che mi ci portò la prima volta.


Tra le enormi colonne in marmo colorato che si levano fino al soffitto, pesanti decorazioni in oro circondavano grandi ritratti, tra cui spiccava il suo, eccolo lì il famoso Eliseev che guarda la sua sala con occhio malizioso, come per farti capire che lui non era stupido e che ha saputo ben nascondere il suo segreto. E già, perchè la leggenda racconta che il ricco epulone, sentita l'aria che cambiava direzione, prima di far fagotto , abbia nascosto in una nicchia segreta, tra gli stucchi dorati e le colonne, tutto il suo immenso tesoro, che ahimé, non è poi riuscito a tornare a riprendere. La rivoluzione lo ha trascinato via nel gorgo della storia, lasciando soltanto lo splendido ambiente che aveva creato. Ne uscivi a malincuore, nella sera ormai scura e triste, mentre risuonavano sui larghi marciapiedi le risate dei drappelli di splendide ragazze che si avviavano verso l'Inturist ad adescarne i clienti.

giovedì 7 ottobre 2010

Grandi magazzini.


Quando l'autunno si fa più fresco e la nebbiolina comincia a calare dalle colline e si avverte l'incombere dell'inverno, inevitabilmente mi prende la nostalgia di Mosca e di quegli anni di cambiamento così interessanti per uno come me, che ero solo e fortunatamente un osservatore esterno. Nostalgia del freddo e delle strade fumose, di quel buio anticipato che avvolgeva la città malamente rischiarato dalla fioca luce gialla dei lampioni, della solitudine di quelle strade larghe, malandate e prive di macchine. Quando passeggiavo lentamente sui grandi marciapiedi sconnessi, con la shapka di pelo giallo calata sulla testa e la sciarpa bene avvolta attorno alla bocca, che il gelo non penetrasse diretto a darti quella sottile fitta dolorosa che segnalava una temperatura a cui non ero abituato, finivo invariabilmente sulla Piazza Rossa, dopo aver traversato con calma il grande spiazzo dell'ippodromo.

Non c'era ancora il grande portale ricostruito qualche anno dopo a simiglianza dell'originale e, passato il severo edificio del museo Lenin, arrivavi sulla grande piazza quasi deserta, camminando sul selciato leggermente bombato, grigio e in attesa della prima neve. Sul fondo le guglie colorate di San Basilio, occhieggiavano a contrasto dei severi graniti scuri del tromboneggiante mausoleo addossato all'alto muro del Cremlino. Ti dava la sensazione di una sonnolenta attesa, di una minaccia di cambiamento, desiderato ma temuto al tempo stesso, quasi che le novità non potessero mai essere positive. L'unico movimento consistente era sul lato sinistro della piazza e nelle vie che lì convergevano. La gente intabarrata in cappotti lisi e dublionke spelacchiate, le donne ingolfate in vaporosi maglioni di angora cinese, arrivavano a frotte e si buttavano, per sfuggire alle folate del vento del nord, nel lungo edifico che si stendeva su tutto quel lato della piazza.

Erano i magazzini GUM (Gosudarstvennyi Universalnyi Magazin - Negozio generale statale), allo stesso tempo paese dei balocchi e vetrina/immagine dell'URSS di quel tempo. L'edificio della fine dell'800, chiaramente ispirato alla moda dei magazzini La Fayette, non ne aveva comunque saputo copiare la graziosa leggerezza, ma la sua voluta grandiosità ne dava una versione pesante e provinciale, tipica di chi, potente, vuole adeguarsi a mode ed eleganza che non gli sono propri. L'edificio aveva però, nel tempo, acquisito una sua dignitosa maestosità. Entravi attraverso le triple porte sgangherate, dove una corrente simile ad un uragano soffiava costantemente. Era la differenza, a volte di 50 gradi tra interno ed esterno a renderla così violenta e costante. Così superato il passo ti trovavi di colpo, dal gelo della strada, immerso in in una atmosfera di caldo umido e sudaticcio a cui presto l'olfatto si abituava. Ti aprivi i bottoni, ti allargavi la sciarpa e subito il senso di disagio si affievoliva. Come fa presto l'uomo ad abituarsi alla puzza, al marcio, al disagio fisico a cui segue con facilità quello morale. In poco tempo tutto sembra naturale, normale, visto che se lo fanno tutti sarà giusto così. Davanti a te si apriva la prospettiva delle tre grandi gallerie coperte a tre piani su cui si apriva la sfilata dei negozi che gli avevano conferito il nome originale Verchnie torgovye rjady (serie di negozi di qualità).

Era tutto un alternarsi di punti vendita del più famoso artigianato russo, inframmezzate da negozi di abiti, cappelli, scarpe ed altri beni di consumo ambitissimi dai moscoviti e nella maggior parte dei casi desolantemente semivuoti o con qualche campione polveroso, esposto malamente sugli scaffali. Eppure questa era la vetrina dell'URSS ma dei frigoriferi erano esposte solo le fotografie e tu potevi entrare e metterti in lista, dopo avere pagato naturalmente, per avere la possibilità che un giorno indefinito ti fosse consegnato il bramato elettrodomestico. Era questa, assieme alla proverbiale scortesia e scontrosità delle commesse, la sua principale caratteristica. Io me ne andavo qua e là, godendomi i punti di vista migliori, come quello dello spazio centrale, dove dalla seconda galleria dominavi la grande fontana che occupava l'incrocio con i corridoi laterali, sotto la cupola di vetro liberty. Mi godevo tutti i banchi snobbati dai russi, perdendomi tra le scatolette di Palech mirabilmente miniate, le spille di legno colorate, i grandi scialli neri ricamati a fiori, gli splendidi giocattoli di legno, i pendenti dell'ambra del Baltico, i grandi cucchiai e i contenitori in legno rossi e neri con i motivi dipinti in oro, le bambole ukraine. Mi attirava morbosamente un grande negozio dove erano ordinatamente esposte le stupende ceramiche di Djel, bianche e azzurre, dove lasciavo invariabilmente il mio obolo, andandomene col mio pacchetto avvolto in una vecchia Pravda che conteneva un piatto portauova con la tenera gallina portasale al centro o un tazza dai bordi delicati, il cui decoro era firmato da qualche sconosciuta artista.

I prezzi erano ridicoli per noi che con la forza del dollaro stupravamo quella debole e traballante economia. Adesso le cose sono cambiate, innanzitutto la G di GUM non significa più Statali ma Grandi e ogni negozio esibisce le più famose griffe mondiali della moda, dei profumi, dei gioielli, del lusso, dedicata al nuovo russo. Niente più spazio per delicate ceramiche, tazze colorate, colbacchi di volpe, piccole sculture di osso siberiane, ma solo la volgarità internazionale di scarpe sportive americane fatte in Indonesia, vestiti con scritte confezionati in Cina, profumi con nomi francesi, gioielli dalla forma italiana. Avranno certamente cambiato anche le pesanti porte a vetro cigolanti e al posto del vecchio bar che serviva solo butterbrodi secchi con burro e aringa, adesso ci sarà un bel locale con aperitivi e cocktails internazionali. Però la gente continuerà a scorrere davanti alle vetrine allora vuote, adesso colme di cose che non può comperare, lanciando le stesse occhiate tristi in attesa di un cambiamento, come sempre desiderato e temuto, anche se come è sempre stato, bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga come prima.

lunedì 16 agosto 2010

Recensione: Custine - Lettere dalla Russia.


Oggi voglio segnalarvi un libro di grande interesse, a mio parere, naturalmente. Si tratta di Lettere dalla Russia di Custine che ho trovato in una vecchia edizione di Fogola del 1977. Credo che non sia facilmente reperibile, per cui per la copertina mi sono dovuto servire di quella di una edizione inglese. Bene, mi direte che trovare stimolante ed avvincente un libro scritto nel 1832, è un po’ azzardato, ma in questo caso, vi confesso che ho fatto fatica a staccarmene prima della fine, anche se in effetti, le ripetizioni e lo stile un po’ ampolloso e didascalico dell’opera possono apparire a volte stucchevoli. Il nostro autore, un nobile e sfaccendato francese, aspirante letterato e diplomatico allo stesso tempo, viaggiatore accanito, intende raccontare ai connazionali cosa è la Russia del suo tempo e soprattutto come siano i Russi.

In quel periodo il paese stava tentando di affermarsi come nuova potenza europea ed era vista con una certa sufficienza dall’Occidente che si considerava evoluto e moderno al confronto di quei parvenus barbari oltreché asiatici. Possiamo dire che si aveva della Russia una conoscenza per sentito dire, molto prevenuta e parziale, un po’ come succede oggi per la Cina. Il nostro dunque, viaggia da Mosca a San Pietroburgo per quattro mesi e sottoforma di lettere giornaliere, descrive con acume ed efficacia, il paese, la gente, la corte, ma soprattutto mette in evidenza il modo di pensare e il modo di vivere del paese. Quello che rende il libro sorprendente è la serie di osservazioni che ne costituisce l’ossatura. Ebbene, se non sapessimo l’anno in cui sono state scritte, tutte potrebbero essere valide e perfettamente adeguate, sia che parlassimo del periodo staliniano, che della gerontocrazia bresnieviana, che della situazione politica attuale. Se si pensa poi, che lo stesso Custine, riferisce che le stesse cose sono valide anche per i secoli passati, non si può arrivare che ad una conclusione.

Tutti i difetti ed i problemi che abbiamo attribuito al regime che per 70 anni è stato il Grande Impero del Male e che si ritiene causa dei disastri e degli effetti, a volte tragici, a volte comici che hanno fatto dell’impero sovietico l’emblema del fallimento di un sistema, sono invece propri da secoli di quel paese, che se li porta sul groppone, come retaggio di un passato e di una storia che rimane immutata ai cambiamenti di potere e dei vari rivolgimenti politici. Di certo questo libro sarà apprezzato da tutti coloro che hanno un minimo di conoscenza della Russia, che si ritroveranno in ogni frase ed in ogni racconto, che riconosceranno tipologie di personaggi e di situazioni, avvertendo rispondenze immediate coi fatti accaduti due secoli fa. Il povero Custine fu orribilmente snobbato dai suoi contemporanei, che probabilmente lo isolarono anche per le sue supposte inclinazioni sessuali. Così il suo libro, criticato dai letterati del tempo e caduto nel dimenticatoio per oltre un secolo, è diventato oggi un testo fondamentale per chi si interessa della Grande Madre. Se avete curiosità per l’argomento dategli senz’altro un’occhiata.