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mercoledì 23 dicembre 2009

Белый Дом.


Così arrivammo di nuovo a Mosca. Una Mosca preoccupata, impaurita, dove si sentivano crescere le tensioni sociali e politiche. Per il momento tutto era stato sedato ed i carri armati erano rientrati, ma pochi mesi più tardi, ad ottobre, ci fu un tentativo di golpe, con i deputati, capeggiati da Kasbulatov, un ceceno e quindi, già di per sé stesso, malvisto, che si asserragliarono nella Duma, la Casa Bianca di Mosca, assediata per giorni e poi incendiata. I segni di quel rogo rimasero evidenti per molto tempo, fino a quando l'edificio fu dato in appalto ai turchi per essere ristrutturato, come si vede dalla foto. Elzin ed il suo gruppo prese definitivamente in mano il paese e segnò l'indirizzo economico e politico del decennio successivo. Appena arrivati a Sheremetievo, l'aereoporto internazionale, si capiva che la struttura organizzativa e le regole del precedente ordine costituito avevano ceduto di colpo. Appena si aprì il portellone infatti, la prima persona ad entrarvi, non fu il solito poliziotto, ma nientemeno che il nostro caro Zhenija che ci veniva ad accogliere direttamente dentro l'aereo, per occuparsi di persona dei bagagli. -Di questi tempi bisogna stare attenti.- disse con tono cospiratorio. L'autista del bus, dietro compenso, ci portò direttamente fuori dell'aereoporto alla macchina che ci aspettava, saltando tutti i controlli. Ma alla macchina, con nostro disappunto erano state svitate le targhe, in quanto giudicata in divieto di sosta, con una interpretazione molto fantasiosa. Era questo il sistema utilizzato dai GAY (la polizia del traffico) per riscuotere le multe. Andammo fino al baraccotto dei vigili a trattare la restituzione che ci costò una intera scatola di sigari Garibaldi appena arrivati dall'Italia a cui Ferox teneva moltissimo, ma solo in questo modo ci furono restituite targhe e cacciavite per poterle riapplicare. data la temperatura, però, il vetro era completamente ghiacciato. Ferox andò a comprare una bottiglia di vodka al vicino kiosk e la fece colare sul parabrezza con la perizia dettata dall'esperienza, tra l'orrore dei passanti che vedevano il prezioso liquido colare inutile nella neve. Ma la vodka allora costava circa la metà dell'antigelo, allo stesso kiosk ed era molto più efficace, come fu subito dimostrato. Ritornare in centro non fu facile. Piazza Majakovsky era chiusa, bloccata da un corteo pro-Elzin; lungo la strada già avevamo dovuto fare una lunga deviazione, davanti allo stadio, gli OMON in assetto antisommossa avevano sgomberato il popolatissimo mercato, pieno di gente del Caucaso, con la scusa dell'ordine pubblico da mantenere. Era già chiaro, ma allora nessuno lo capiva, che proprio nel Caucaso si sarebbero potuti individuare futuri nemici contro cui scatenare guerre diversive e da incolpare dei guai che si stavano abbattendo sulla Russia. Il giorno dopo me ne sarei tornato finalmente in Italia, a casa, dopo 43 giorni passati in una nazione completamente nuova, carica di problemi e con poche ricette e nessuna esperienza per risolverli. Era il primo di innumerevoli viaggi che avrei fatto da quelle parti, nei quindici anni successivi, una esperienza straordinaria per tutte le persone che ho potuto incontrare, per tutte le situazioni con cui ho potuto confrontarmi, per tutte le cose che ho cercato di capire, spesso senza riuscirci, ma che mi hanno arricchito come forse nessun altro posto o avvenimento ha potuto fare. Assistere ai grandi cambiamenti con l'occhio dell'estraneo è un privilegio che può capitare poche volte nella vita. Manco da qualche anno da Mosca e posso dire con sincerità che mi manca il suo clima duro, i suoi odori impastati di sudore degli ambienti troppo caldi, il morso del gelo sulla pelle che ti fa affrettare verso un luogo riparato, gli occhi tristi della gente che esce dalla Metro al mattino, le risate amare davanti alle bottiglie di vodka, i rumori attutiti nei parchi coperti di neve. Forse non avrò più l'occasione di vedere la stella rosso rubino sulla torre Spaskaja, allora mi farò bastare la possibilità di sentire ogni tanto gli amici che la possono vedere ancora anche per me.

martedì 22 dicembre 2009

Riva lontana.


Del nostro soggiorno ad Irkutsk, ho già parlato abbondantemente qui e non starò a ripetermi. Mi piace soltanto sottolineare la sensazione di perdita di contatto con il resto del mondo, dell'essere in un luogo così lontano dalle mete usuali. In una terra, tutto sommato povera di presenza umana, questa si concentra tutta in pochi luoghi, quasi a creare un fortilizio dove proteggersi da una natura incombente, totalizzante, non tanto amica per la verità. Le temperature sconvolgenti per buona parte dell'anno, l'immensità sconfinata delle foreste che ti circondano fino a perderti nell'assenza di segni di riconoscimento, il terreno, un cemento di ghiaccio che per pochi giorni all'anno si trasforma in una fanghiglia collosa ricoperta da nuvole di feroci e piccolissime zanzare, rendono questi spazi difficili da vivere per chi ha avuto la ventura di esserci capitato, per caso o per forza. Il lago, immenso, è circondato da territori che, al di fuori dei locali, conoscono solo i giocatori di Risiko, la Yakuzja, Chita, la Buriazija, sono nomi remoti che richiamano solitari cacciatori di pellicce del grande nord. Avventure alla Jack London alla ricerca di scheletri di mammuth sepolti nel permafrost. La realtà è come sempre più prosaica, meno poetica. Sulla lastra di ghiaccio che ricopre il lago, spessa quasi quattro metri, passavano i camion lungo una pista lunga una ottantina di kilometri che attraversavano da una riva all'altra. Dall'alto della collina la fila del convoglio di mezzi che andava verso est pareva una coorte di formiche nere che si allontanavano lentamente. Il grande bacino, riserva d'acqua dell'umanità, è in realtà devastato da enormi complessi per la produzione di alluminio e da colossali cartiere che sfruttano le foreste del nord, inquinando l'acqua a più non posso. Ma tutto quanto avviene quasi a seicento kilometri più in su e sulle coste più meridionali del lago, nei piccoli porticcioli dove i pescherecci sembravano galleggiare sul ghiaccio, non si avverte la morsa dell'inquinamento e i piccoli insediamenti di casupole basse di legno parevano parte del paesaggio, con i piccoli fili di fumo che escono dai camini appena emergenti dalla neve. Dovemmo bere, per compiacente condiscendenza, un bicchiere dell'acqua purissima del lago, prelevata direttamente da un buco di pescatori nel ghiaccio trasparente del porto, sotto il quale si intravedeva una bicicletta e altri rottami gettati durante la breve estate siberiana. In città entrammo all'Univermag, ma la penuria di merci era pesante e pochi clienti stavano in coda davanti a banconi dagli scaffali desolantemente vuoti. Era ben rifornita solo una sezione di cetrioli in composta e quella delle pantofole di pelo. Ne comprai un gran numero per fare regalini, anche se in quel mese erano disponibili solo di misura 37. Gli alberghi erano infestati di signorine desiderose di sbarcare il lunario, di cui era difficile liberarsi, essendo la presunta clientela sempre più rarefatta. Questa del mercante sempre in cerca di femmine su cui sfogare i suoi istinti primordiali, deve essere una costante millenaria. Pensate ne parla anche diffusamente il buon Marco Polo nel Milione, vera Lonely planet del mercante in viaggio, che segnala appunto le zone e i paesi dove le fanciulle sono più gradevoli o date in disponibilità dagli stessi mariti, ben felici di favorire lo straniero apportatore di ricchezza. Illustra il Veneziano, con dovizia di particolari, segnalando anche la tipologia di dono più gradito, in genere spille o gioie varie di cui il mercante provvedevasi per la bisogna e descrive situazioni in cui le giovani meno desiderabili e che quindi potevano mostrare esposte sulle vesti o tra i capelli, meno doni ricevuti, risultavano poi di difficile collocazione. Sta di fatto che chi desidera liberarsi di questo, fastidioso se non richiesto, servizio, deve escogitare diverse strategie per starsene tranquillo, in attesa che le tigri trovino altre prede giunte assetate all'abbeveratoio. Già, per gli appssionati dell'argomento, ho raccontato dei boomerang qui, segnalo solo un altro caso simpatico in cui mostrando casualmente delle foto in cui il nostro buon Zhenija era rapato a zero, ci qualificammo come inventori e detentori unici della formula segretissima di un prodotto per una totale ricrescita dei capelli. La fluentissima e ricca chioma che esibiva il nostro al momento, era proprio la ragione per cui lo conducevamo nella nostra road map per meglio piazzare il prodotto. Questo spiegone, unito alla gentile offerta di una bicchierino di Amaretto, servì ad allontanare definitivamente le questuanti, attirate anche dall'arrivo di un gruppo di rubizzi manager tedeschi. Ma venne anche il momento di lasciare il gelo di Irkutsk per tornare a Mosca, per fare il punto della situazione, per tornare a casa. La Siberia, sconfinata illuminata dal sole, brillava diecimila metri più in basso, come un tappeto di madreperla, niellato dalle incisioni d'argento dei fiumi gelati. Un tempo infinito per sorvolare il nulla più assoluto, eppure quando arrivammo, dopo sette ore di deserto bianco, era passata solo un'ora, Miracoli del fuso.

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lunedì 21 dicembre 2009

Letargo glaciale.


Accidenti, da ieri è calato un gelo mortale, siamo stati tutta la notte a -10°C , non ce la fa neanche a nevicare. Forse nel pomeriggio scenderà pesante una nuova coltre bianca a coprire questa città, precipitata all'ultimo posto tra i capoluoghi del centro-nord, in linea quindi con la testa dei suoi vecchi abitanti, ad ottundere i rumori, le menti, le idee già poco vivaci per inclinazione naturale. Un po' come nei boschi di betulle di Jangantau, dove pareva, in quell'inverno del '93, che niente potesse interferire con la gran pace che regnava tra le alte colline. Una calma quasi letargica, dove anche i piccoli problemi del nostro impianto, si discutevano con i tempi biblici delle calde isbe sepolte sotto la neve dell'inverno russo. Lontano migliaia di verste, a Mosca era in corso una lotta feroce per colmare il vuoto di potere che si era creato, ci si batteva senza esclusione di colpi per chi dovesse prendere in mano la nuova Russia bambina e la sua ricchissima eredità, nata da poco, già così contesa dalle dita adunche dei predatori, che si accalcavano dentro e fuori dalla Duma, la casa bianca russa, antagonista del Kremlino nella battaglia dei nuovi oligarchi. Noi, come ci diceva tranquillizzante il vecchio dottore che dirigeva il sanatory, eravamo fuori dal mondo, lontano da questi giochi e nulla dovevamo temere. Come in passato, quando avvenivano questi rivolgimenti, la provincia lontana, entrava in un sonno di tipo letargico, aiutata dal clima, e attendeva il trascorrere della nottata per capire chi aveva in mano il bastone del comando e uniformarsi al nuovo corso. Tutti i responsabili politici si davano malati, in attesa delle nuove fotografie da appendere al muro degli uffici. Non rimaneva che chiacchierare di letteratura, senza esporsi troppo e riposare con calma. La banija, la sauna russa con relative vergate di rami di betulla era il luogo ideale, ma, per amor di patria, trascurerò di scendere nei particolari, tutto sommato inutili al succo del racconto, se non per puntualizzare che qui fu presa la decisione di non interrompere precipitosamente il viaggio e di confermare i biglietti, aerei questa volta, secondo la corretta alternanza che ho già precedentemente spiegato, alla volta di Irkutsk, nel cuore della lontana Siberia, sulle rive di quel lago Baijkal, letto solo sui libri, il bacino d'acqua più profondo del mondo che contiene il 20% delle acque dolci della terra. Rimanemmo ancora un giorno nella pace degli Urali, guardando dall'alto il fiume d'argento, mangiando shashliky tra una interminabile foresta di bottiglie di vodka, nella calda dacia di legno, puntualizzando il progetto che avrebbe preso vita in primavera quando l'acqua mineral-radioattiva della fonte miracolosa, avrebbe finalmente avuto il corretto imballo che si meritava per poter prendere le vie del mondo. All'aeroporto eravamo in pochi, nel cuore della notte gelata. Nella saletta internazionale dove eravamo confinati, trovammo solo un bulgaro dalla faccia da lottatore che pareva uno di quei mediatori da foro boario delle Langhe. Vendeva di tutto e girava le estremità delle Russie cercando piccoli business commerciali, una specie di rigattiere ambulante di prodotti vari, segno dei tempi. Dappertutto, in ogni tempo, le necessità che nascono, vengono subito riempite da qualcuno, i bisogni vengono coperti, se manca la carta igienica in Chukotka a diecimila kilometri da Mosca, qualcuno sicuramente penserà che conviene andarci e vendergliela. Così dovunque andrete per il mondo, troverete sempre degli uomini, all'apparenza anonimi, con una piccola valigetta in mano, la valigetta dei contratti, nera e piena di carte, di foto e di campioni che aspettano un aereo, un treno, un autobus, che attaccano bottone con i vicini, tanto per ingannare le lunghe attese. Vi chiederete cosa ci fanno in quel posto sperduto e apparentemente privo di interessi. Stanno lì, silenziosi o chiacchiericci, pensierosi, a inventarsi qualcosa per portare a casa del lavoro ad altri, che aspettano a casa, con impazienza, di cominciare a fare delle cose, a muovere le macchine, a produrre roba. L'aereo che portava ad oriente, sempre più malandato man mano che ci si allontanava da Mosca, aspettava immobile di partire sulla pista di ghiaccio nel cuore della notte. Anche noi salimmo quella scaletta, silenziosi, verso un'alba gelida, remota.

sabato 19 dicembre 2009

Vivere a Ufa.


Ufa, capitale della Bashkiria, i cui abitanti si chiamano Ufimzy, tanto per rispondere alla domanda di Popinga di ieri e non Ufologi, come suggeriva Ferox in un anelito di contatto del terzo tipo, risultava essere a quel tempo, una delle città più inquinate dell’impero sovietico. L’aria aveva un perenne sentore di fenolo e Ferox mi raccomandò di usare poco l’acqua del rubinetto, perché sulla pelle rimanevano strani e sospetti rossori. Malelelingue affermavano che il numero di nascite con deformazioni, superasse ogni altra zona conosciuta. L’impressione era un po’ quella di una zona un po’ fuori dal controllo centrale, dove le camarille locali facevano un po’ il bello ed il cattivo tempo. Gli incontri con diversi personaggi equivoci, che si spacciavano per i maggiorenti locali ce lo confermò, così come un losco personaggio, tale N. che come credenziali ci assicurò di essere stato in galera cinque anni prima per crimini commerciali. Sembrava questa una specie di medaglia al valore che contraddistingueva chi era in grado di offrire buoni affari. Per fortuna presto arrivò la macchina che ci doveva portare a Jangantau, dove, essendo arrivata la conferma del pagamento della linea di imbottigliamento dell'acqua minerale, ci attendevano alla fonte per il progetto dell'impianto. Della cosa avevo già diffusamente parlato qui e anche qui, per cui, chi volesse maggiori dettagli, li troverà. Ricordo solo il nostro stupore nel trovare nel luogo, dove ci aspettavamo un capannone pronto ad accogliere il nostro impianto, una landa desolata con un tubo di acqua che fuoriusciva da un laghetto ricoperto di spesso ghiaccio verdastro. Era la famosa fonte ricolma di benefiche proprietà minerali radioattive, grazie alle quali, il vicino sanatory era pieno zeppo di curandi. Non rimase che fare la foto ricordo, davanti al cumulo di neve dove sgorgava l'acqua miracolosa mentre il capo delegazione, si sacrificava a (far finta di) bere un sorso del famoso elisir di lunga vita. Non era chiaro quali fossero i motivi dei benefici effetti dell'acqua stessa e delle cure che venivano lì praticate, ma, come ci spiegò il gran dottore capo del sanatory, c'erano almeno una trentina di teorie sugli effetti di quello che definì come un reattore naturale sotterraneo, da cui emergevano effluvi vari, tra cui il radon. Tra le altre cure sperimentali, parevano particolarmente efficaci certe sedute di vapori in cui il malcapitato veniva rinchiuso con la testa fuori, in una specie di stufa/bara fatta con dei frigoriferi finlandesi di recupero. Era la genialità russa dell'arrangiarsi e non potemmo esimerci dal sottostare alla cura, su cui però, vorrei soprassedere. Nel gran banchetto di benvenuto della sera, capimmo che i responsabili volevano da noi anche un aiuto sottoforma di suggerimenti utili a costruire un capannone degno della tecnologia occidentale che avrebbe ospitato, ma non avendo sottomano strumenti idonei, mentre le bottiglie di vodka vuote si allineavano a terra nella grande dacia di legno nascosta nella foresta di betulle, coperta di neve ma riscaldata all'inverosimile, prendemmo alcuni fogli di carta igienica, gli unici disponibili sul posto, dove fu vergato uno schema di capannone utile alla bisogna. La carta, che era robustissima essendo del famoso tipo chiamato "la vendetta di Stalin". conosciuta per rendere di un bel rosso vivo le parti interessate a causa della sua ruvidezza, funse perfettamente allo scopo e risulta che fosse inserita successivamente tal quale, nel fascicolo descrittivo del progetto. Mentre i convenuti cominciarono a rotolare come previsto dal protocollo, sotto il tavolo ad uno a uno, calò la notte pesante. Tra le montagne di Yangantau, mentre sul fondovalle il nastro d'argento del fiume formava una grande esse prima di scomparire tra le colline, regnava una pace plumbea, ma c'era nell'aria un turbamento profondo. Ieri erano circolate strane voci provenienti da Mosca. Eravamo riusciti, nel tardo pomeriggio, ad avere la linea telefonica e la moglie di Ferox ci aveva detto con una certa preoccupazione che c'erano i carri armati sulla Kutusovsky che entravano in città e non si capiva cosa stesse succedendo. Al mattino fu sospeso il segnale TV e tutte le linee telefoniche. Dovevamo essere ricevuti dal sindaco in pompa magna, ma ci dissero di rimanere alla dacia, perchè il sindaco aveva l'influenza. A questa notizia ferale e sospetta, Ferox cominciò a preoccuparsi, stava succedendo qualcosa di grave.

venerdì 18 dicembre 2009

Mercati internazionali.


Lasciammo la città segreta di primo mattino. La guardia ai reticolati ci restituì i passaporti con grandi risate e ce ne andammo a tutta velocità. Eravamo di nuovo in ritardo e ci voleva più di un'ora per la stazione di Ekaterinburg (nell'occasione Sverdlosk aveva cambiato nome), dove ci aspettava il treno delle 8 e 35. Questo era il turno in cui avevamo deciso che mai più avremmo preso l'aereo. Ripercorremmo la strada sul lago ghiacciato a velocità folle; io tenevo gli occhi chiusi, stretti stretti, mentre tutti cantavano a squarciagola 'O sole mio, forse per esorcizzare il dio dei ghiacci. Arrivammo in stazione alle 8 e mezza, appena in tempo per abbracciare gli amici, ancora un po' groggy per la serata precedente. Del treno neppure l'ombra. Zhenija era inorridito. Era impossibile che il treno della Transiberiana fosse in ritardo. Infatti. L'orario del biglietto era scritto con l'ora del fuso di Mosca, quindi eravamo arrivati con due ore di anticipo, ci spiegò il rubizzo capostazione, che subito si fece in quattro per darci una mano, anzi ci cedette la sua cameretta personale per lasciare i bagagli, assolutamente insicuri, di quei tempi, certificò con serietà, al deposito bagagli. Ci sdebitammo lasciandogli una serie di monetine italiane per la sua collezione personale. Andammo così a fare quattro passi all'esterno dove era in pieno svolgimento un gran mercatino di babuske. In una interminabile fila, un gruppo di vecchiette offrivano merci di tutti i tipi disposte su cassette di legno per tenerle sollevate dalla neve sporca. Ekaterinburg era diventato un gran crocevia di traffico di merci povere, che arrivava dalla Cina lungo la Transiberiana. Un folto gruppo di militari intabarrati con le schapke di ordinanza, con tanto di stella rossa controllavano la massa in movimento del mercato, irregolare ma tollerato, in quanto, come diceva la consuetudine del tempo, non espressamente vietato. Una fitta barriera di Zhiguly cariche di masserizie segnavano i confini di quel punto di scambio spontaneo. Una o due volte al mese, le novelle imprenditrici prendevano il treno e arrivavano fino al confine cinese dove si favoleggiava di un immenso mercato, una vera e propria città dell'oro dove tutto quanto si produceva in Cina veniva scambiato a colpi di dollari sonanti. Vestiti, scarpe, alimentari di ogni tipo, biciclette e ogni altro ben di dio che la macchina ben oliata di quella che stava per diventare la fabbrica del mondo, cominciava a sfornare a ritmi vertiginosi ed a prezzi assolutamente concorrenziali. Prezzi, che man mano che il treno si spostava verso ovest, ingrassavano, si facevano più corposi, secondo un meccanismo commerciale a lungo sconosciuto, ma ben presto imparato. A Ekaterinburg, stazione intermedia, i prezzi erano ancora sufficientemente interessanti per spingere le Tamare e le Tanije moscovite ad arrivare lì a mani nude e ripartire cariche di fagotti. Col tempo la fame di guadagno le spinse fino a Pekino, al famoso mercato dei russi, nel quartiere dietro alle ambasciate, dove ti davano il prezzo dei maglioni per un minimo di venticinque pezzi. Ci prendemmo un gelato alla panna dall'unica vecchina che ancora trattava questo buonissimo articolo tradizionale della morente industria russa, ormai circondata (vecchina ed industria) dalle bancarelle che offrivano barrette di Mars, Snickers e Rocher Ferrero, vero oggetto del desiderio dei vari adulti e bambini che si aggiravano qua e là, fermandosi immobili e con gli occhi sognanti come Hansel e Gretel di fronte alla casetta di marzapane, accarezzando con gli occhi le irraggiungibili palline di carta dorata ammonticchiate a piramide sulle cassette delle arcigne streghe. Forse anche quelli, però, arrivavano dalla Cina. Salimmo infine sul treno, che era ovviamente in perfetto orario. Ci mise tutto il giorno a scavalcare gli Urali con lunghe curve sinuose nei fondovalle, tra le colline coperte di foreste bianche. Un paesaggio da stordimento. Io stavo attaccato al finestrino, quasi ipnotizzato dal fascino di quel quadro mutevole, forse perchè ero intorpidito dal freddo, anche se coperto da maglioni e dublionka, a causa del riscaldamento che non funzionava. Arrivammo ad Ufa in Baskiria, alla sera. Giurammo che la prossima volta avremmo preso l'aereo.

giovedì 17 dicembre 2009

Vodka sincera.


Finalmente si è deciso a nevicare. Non ne poteva più da qualche giorno e ieri sera, guardando fuori dalla finestra, si intravedeva scendere qualcosa, come lungo le fasce laterali di questo blog. Non dà tristezza come quando comincia a piovigginare, dà piuttosto una sensazione di attesa positiva. Proprio la stessa che provai allora, guardando verso il lago ghiacciato, dalla piccola finestra del sanatorj di Sverdlosk 44, la sera del nostro arrivo. Era buon segno; intanto se nevicava vuol dire che la temperatura era salita, dai -25°C dei giorni precedenti e l'appuntamento alla fabbrica del marmo, previsto per la mattina successiva, sembrava promettente. Che ci entravamo col marmo, noi tappologi? Niente all'apparenza, ma in un mondo che aveva difficoltà enormi a comunicare con l'esterno, in cui la possibilità di muoversi era quasi negata, chi aveva bisogno di qualcosa si rivolgeva alle uniche persone a tiro che avessero la possibilità di comprare per soddisfare anche con un passaggio in più i loro bisogni. Quando si chiudono le porte con paletti e lacciuoli, se hai bisogno, sei obbligato a giri tortuosi ed alla fine le stesse cose ti costano di più, in soldi e fatica. Così di buon mattino, la italijanskaija delegazija si presentò alla fabbrica del marmo dove il sindaco e tutta la compagnia aspettava in pompa magna. La fabbrica era ferma perchè tutte le macchine (italiane naturalmente) per tagliare le lastre di marmo erano malandate o completamente rotte e senza possibilità di ricambi. Ora direte, ma non potevano chiamare direttamente la ditta e ordinare nuove macchine e ricambi? No, non si riusciva. Dall' URSS e da quella città chiusa agli stranieri, blindata dietro il triplo filo spinato della stolida segretezza militare, non si poteva comunicare, telefonare, chiedere. Ecco quindi la nostra funzione di salvatori della patria, che come capi commessa avremmo, raccolto le necessità, fatto preparare il progetto, approntato e spedito, infine coordinato il montaggio ed il commissioning di una linea completa per la produzione di lastre, piastrelle e così via. Il sindaco era una brava persona che molto pragmaticamente, capiva i vari problemi e aveva una sincera volontà di sistemare le cose, dotando la sua città di un polo produttivo efficiente. La sera, davanti agli spiedini che sfrigolavano sulla griglia improvvisata, dopo la prima bottiglia di vodka si aprì molto. Dietro i suoi occhi tristi avvertivi la voglia di fare cose utili, di servire la propria comunità, anche sentendo dietro le spalle le pressioni degli appetiti dei tanti personaggi che prosprano sotto tutte le bandiere, questo mondo che intreccia il politicante con il lavoro, mignatte che ti si attaccano alle caviglie come non parendo e intanto succhiano la loro ragione di esistenza. Ci raccontò di quando, giovane, era campione di biathlon e di come era bello scivolare sui solchi tracciati tra le betulle, col freddo pungente che ti pizzicava le guance, per fermarti ansante cercando di tenere ferma la carabina, mentre il bersaglio lontano si appannava davanti all'occhio velato dalla fatica. Ma che serenità, confrontata alle sedute del consiglio comunale, dove ai bersagli si erano sostituite belve fameliche da tenere a bada, ognuna interessata solo a staccare il proprio piccolo brano di carne succulenta e grandante di dollari. Firmammo il contratto e della successiva visità parlai già qui, per chi vuol saperne di più. Ci lasciammo quindi con i consueti fraterni abbracci che la vodka rende più lunghi e impastati, con la promessa di rivederci in Italia alla approvazione delle macchine prima della spedizione. Vennero, qualche mese dopo e naturalmente li portammo a Venezia. Dopo il consueto giro, San Marco, campanile, ponti, gondola, aperitivo per apprezzare i mosaici del Danieli, dopo tanti sospiri, gli occhi dell'amico sindaco erano sempre più tristi e mentre li salutavamo, esternando il nostro più sincero dispiacere nel lasciarli andare così in fretta, ci guardò con un mezzo sorriso pragmatico dicendo: -Non raccontate storie, tutti sanno che la cosa più bella della visita di una delegazione è il rumore dell'aereo che se la porta via.-


domenica 13 dicembre 2009

Verde ghiaccio.


Il giro nelle fabbriche di Ekaterinburg o Sverdlosk come ancora si chiamava, non fu molto diverso da quello delle altre città. Dovunque impianti fatiscenti che volevano essere sostituiti, riammodernati o anche completamente spostati su produzioni nuove, più efficienti e moderne. Tutti volevano entrare nella nuova era, mancavano solo i soldi, non certo la volontà. Quindi lungo e paziente lavoro a discernere il loglio dal grano, la pula dal riso, insomma, chi la possibilità di avere i dollari ce l'aveva, da chi invece sognava solo di averli. Così via, qua e là, dalla fabbrica di spumante (sovietskoije champagne) con la linea di imbottigliamento a pezzi (sapete che là lo spumante non si fa(ceva) né con il metodo Charmat, fermantazione in autoclave, né con lo Champenois, fermentazione in bottiglia, ma con un metodo brevettato russo , brrr, ancora più rapido, di fermentazione in continuo in poche ore, eheheheh, alla fabbrica di polietilene, dove lo sgarbatissimo direttore, che ci aveva invitato ad andare, ci mise praticamente alla porta dicendo che non aveva bisogno di niente e mentre uscuvamo, a testa bassa, confessò che in realtà non aveva speranza di avere soldi per una linea di sacchetti di cui aveva urgente bisogno, alla Parfumerija dove avevano in mente tutta una linea nuova di rossetti, con la necessità di un ricco set di stampi, fino alla fabbrica di occhiali che faceva terrificanti montature anteguerra, tipo tartarugone larghi un centimetro che pesavano almeno un etto cadauna senza lenti. Irina la direttrice, era la solita matrona di peso con magliettina bianca di angora cinese pelosissima (la maglietta). L'altissima architettura della massa di capello biondo che le sovrastava la testa, la faceva sembrare ancora più imponente. Chissà com'è che le donne russe, bellissime in una media veramente anomala, non appena raggiungono un posto di potere, si dilatano in tutte le direzioni in maniera proporzionale al grado? Sarà la dieta ricca di patate o la vodka dei brindisi delle riunioni di lavoro? Chissà. La nostra era però gentile e disponibile e ci mostrò con piacere tutta la produzione, ma dal tono dimesso della voce era già intuibile che il finanziamento necessario era talmente lontano da renderlo improponibile. Guardava con invidia e desiderio il baldanzoso Ferox, non certo per la sua avvenenza, ma per la leggerissima e moderna montatura dei suoi occhiali, che volle esaminare con cura, Se li passava da una mano all'altra, controllandone i particolari con la professionalità di chi conosce bene il suo campo. Ammirò con sospiri malinconici la mirabile tecnologia italiana, restituendo il reperto quasi con dispiacere, come se avesse voluto trattenerlo per meglio studiarlo, sezionandone i particolari attraverso una specifica autopsia industriale per carpirne i misteriosi segreti. Quasi non si capiva cosa ci eravamo andati a fare, poi in un attimo tutto fu chiaro Il maggiorente politico che ci accompagnava, tromboneggiando sulle doti ed i pregi della nostra italijanskaja firma e sulle grandi potenzialità industriali della città, sponsorizzando la creazione di un ufficio di rappresentanza in loco, di cui, benignamente avrebbe potuto prendersi carico, aveva solo bisogno di un paio di occhiali nuovi, che, la corposa Irina, gli fece scivolare in tasca, mentre ci accompagnava all'uscita. Il Dio minore delle piccole cose ci accompagnava sempre nei nostri vagabondaggi. Cosa stavamo cercando? Un sentore, una traccia. Eravamo come cani da tartufo che scodinzolando si aggiravano nei boschi degli Urali cercando di avvertire, anche se tenue e ricoperto dall'acre odore di marcescenza di un sottobosco antico, il delicato profumo dei dollari amici, sottili lamelle verdi con cui cospargere il risotto dei nostri delicati e tecnologici stampi. Così, vigili ed attenti, salimmo sulla Lada Niva che ci avrebbe portato a Sverdlosk 44, la città segreta tra le colline basse degli Urali, circondata dai reticolati e di cui avevo già parlato qui, un po' di tempo fa e a cui vi rimando. Il paesaggio innevato di questa zona è molto bello, dolce e calmo, mentre la strada percorre i fondovalle con curve ampie circondata dalle betulle fittissime e bianche . Quasi non distingui la neve dalla corteccia, se non dai piccoli segni neri orizzontali che la fendono delicatamente. Ogni tanto si incontra un piccolo specchio d'acqua ghiacciato. Vicino ad uno di questi, un po' più grande che appena si intravedeva la riva opposta, lasciammo la strada che lo circondava per attraversare direttamente la distesa di ghiacchio. Ci fermammo quasi in mezzo al lago; sotto di noi ghiaccio verde trasparente e pulito di neve dal vento tagliente che quasi smerigliava la superficie piatta. Un verde quasi smeraldino, tutto percorso da crepe inquietanti che si allargavano fino a che l'occhio, nella penombra del pomeriggio inoltrato, le poteva scorgere. Più di due metri di spessore, assicurò Kostija che ci accompagnava, ma quando risalimmo in macchina e le ruote riguadagnarono la riva scoscesa, mi sentii più tranquillo. Poco lontano, il triplo reticolato di Sverdlosk 44, mostrò un varco in cui ci insinuammo, dopo un rapido controllo dei nostri permessi. Ce ne andammo verso l'albergo in pochi minuti allontanandoci dal gate dove con mia inquietudine, avevano trattenuto i nostri passaporti. Nell'aria un profumo amico e promettente, che veniva dalla fabbrica del marmo.

sabato 12 dicembre 2009

Ali gelate.


Domodiedovo è il secondo aereporto di Mosca, da dove partono i voli per l'est. Ci si arriva per una lunga strada rettilinea attraverso le sconfinate foreste di betulle che circondano la capitale, una promessa dell'infinito che ti attende al di là degli Urali. Mi dicono che lo hanno rifatto modernissimo ed efficiente, ma allora era un altissimo capannone sgangherato, affollato all'inverosimile di una umanità composita, carica di scatoloni, pacchi, masserizie di ogni tipo che si stipava in attesa del proprio volo, seduta sulle valigie. I pochissimi stranieri venivano convogliati in una saletta VIP con qualche con qualche seggiola di compensato lungo i muri, del tipo cinema di terza visione anni 50. Sbocconcellammo un pezzo di formaggio che prudentemente ci eravamo portati dall'ufficio in attesa dell'aereo, dopo i consueti taglieggiamenti della "cooperativa facchini" che ci aveva consentito il passaggio alla sala d'attesa, trasportandoci i bagagli per i dieci metri che la separavano dalla sala comune, poi, dopo un check-in virtuale ci avviammo sulla pista dove ci attendeva un Iliushin male in arnese. C'erano quasi 30 gradi sotto lo zero e l'attesa, prima che una svogliata hostess ci consentisse l'accesso alla scaletta, fu fastidiosa. Il vento gelato a raffiche, sembrava strapparti la carne dalle guance. In contrasto a poco tempo prima, in cui tutti gli aerei viaggiavano sempre al completo, salimmo, non più di una quindicina di passeggeri, guardandoci, chissà perchè, in cagnesco. Una kapo in divisa, in barba a quanto segnato sulla carta di imbarco, ci ordinò con modi spicci di sedere tutti in fondo all'aereo, per agevolare(?), disse, il decollo. C'era una tremenda puzza di pipì di gatto, ma non si vedevano felini da quelle parti. Ferox e R. tentavano di tranquillizzarmi, assicurandomi che i piloti russi sono i migliori al mondo, specialmente sul ghiaccio, ma mentre l'aeromobile rullava lungo le piste, il lucente strato che le ricopriva, mi dava un senso di malessere profondo. Lungo i bordi un numero infinito di velivoli in stato di evidente abbandono aumentavano se possibile il mio senso di insicurezza. Erano tutti mezzi utili per cannibalizzare i pezzi di ricambio per i pochi aerei che volavano. Poi i motori aumentarono il regime e con uno strappo violento l'aereo, dopo una lunga rincorsa, si alzò lentamente. Non c'erano nubi, le foreste intorno non avevano fine, ci lasciammo il sole alle spalle. Sverdlosk, sonnacchiosa e gelata, appena al di là degli Urali ci aspettava, in una bufera di neve, addormentata in un sonno profondo da quel mattino in cui 75 anni prima la famiglia imperiale veniva fucilata nella anonima periferia. Finalmente si arrivò, era il leit motif dei lunghi spostamenti, quando scendevi dall'aereo, giuravi che il prossimo viaggio lo avresti fatto in treno e viceversa. Ma l'atterraggio fu perfetto, Zhenija ci aspettava sotto la scaletta, l'avanguardia inviata a preparare la posizione.

Gepas

venerdì 11 dicembre 2009

Rossetti ed acqua minerale.


L'inverno russo è un po' un limbo perenne, in cui si passa dal buio poco illuminato della notte ad una penombra lattiginosa che dura poche ore, sempre ovattata dal bianco sporco della neve che attutisce ogni rumore, in particolare allora, quando il traffico era scarso. Anche se tutta la città era servita di teleriscaldamento, quei pochi mezzi circolanti ammorbavano l'aria. Avevi senpre in gola uno sgradevole sentore di cattiva benzina bruciata male. Tutto questo ottundeva alquanto i sensi, creando un certo torpore che leggevi chiaro negli occhi dell'umanità che, nonostante il freddo, affollava i marciapiedi, la mattina per andare sul posto di lavoro. Questo non significava certo andare a lavorare, sono due concetti radicalmente diversi. In quel periodo infatti, era luogo comune dire che lo stato faceva finta di darti uno stipendio e tutti facevano finta di lavorare. Procurarsi qualunque cosa era un po' un percorso ad ostacoli, in cui valevano solo le conoscenze, delle persone giuste e delle giuste modalità. Qualunque tipo di biglietti, sia per i trasporti che per gli spettacoli o l'ottenimento di visti o permessi, prevedeva il contatto con persone misteriose che, pagando il giusto, ti procuravano il tagliando desiderato. Così dovemmo rinunciare al viaggio previsto ad Alma Ata, non avendo in tempi utili, il visto necessario. La notizia ci giunse da Zhenija, che in pratica fungeva da trovarobe, mentre andavamo ad un importante incontro di rappresentanza al ministero del commercio, dove un personaggio di peso ci attendeva in una enorme salone con classica scrivania sovietica a T, tra un andirivieni di ancelle recanti thé e misteriosi fogli dove lui, con noncuranza, dopo aver gettato un'occhiata, vergava uno scarabocchio. Quello era certamente un uomo di peso (almeno 150 kg) in classica grisaglia, che scese dal trono per abbracciare e baciare il tenero Ferox, cercando di metterci a nostro agio. Di certo, l'accreditamento ed i precedenti della nostra azienda, che era una delle pochissime, allora, ad avere un accreditamento ufficiale, aiutava, ma, come mi fece poi notare Ferox, si avvertiva un certo qual cambiamento nella condiscendenza con cui il mammasantissima ci trattava stavolta. Si complimentò per le nostre realizzazioni e mentre si parlava del più e del meno, non perse occasione per far scivolare tra le pieghe del discorso la sua famigliarità con Craxi, De Michelis e compagnia bella. La prendemmo come un cambiamento dei tempi ed in ogni caso ci diede interessanti dritte su nuovi contatti da prendere. Il suo occhio era vivo e attento, a dispetto della mole, come di chi sente il branco di iene che ha ormai circondato la tana del vecchio leone in difficoltà e ha ben compreso che è il momento di cercare nuove piste su cui svicolare per evitare i pericoli e rimanere a galla nella battaglia di potere appena scatenatasi. Ce ne andammo dopo un'oretta. In ufficio ci aspettavano, anche se avevamo cercato di evitarle, altre due iene, i padroni dell'appartamento, una coppia che nella privatisazija, da inquilini ne erano rimasti proprietari con un riscatto nominale. Trasferitisi in una piccola dacia nei dintorni di Mosca, campavano dell'affitto ed ogni mese arrivavano come sanguisughe richiedendo un aumento delle prebende che superavano ormai ampiamente i 2000 dollari. Un vero furto. Sembava una coppietta di tranquilli pensionati dediti alle pratiche dell'orto, invece seduti dietro il tavolo della cucina, non mollavano l'osso, sapendo che ci eravamo ormai impiccati con la nostra stessa corda, avendo completamente ristrutturato a nostre spese i locali. Pretesero altri 200 dollari adducendo inesistenti spese di manutenzione, pena lo sfratto immediato. Temendo l'arrivo dei picciotti, Ferox aderì obtorto collo al taglieggiamento e i due banditi se ne andarono a braccetto, dondolandosi lungo le ampie scale imperiali al buio, essendo rotto l'ascensore e tutte le lampadine rubate. Risolta la pratica andammo all'aereoporto ad accogliere R. che arrivava dall'Italia carico di materiale. Anche qui bisognava conoscere le segrete strade. Trovata infatti una vecchia amica che apprezzò particolarmente la scatola di Rocher Ferrero che avevamo casualmente con noi, ci fu permesso di entrare nelle aree speciali dove facemmo transitare facilmente tutto il materiale, evitando pratiche burocratiche infinite che, nella maggior parte dei casi si traducevano nel sequestro di parte della merce. Ansiosi di saper le ultime notizie italiane arrivammo in ufficio appena in tempo per sentire il ticchettio del telex che batteva due fondamentali notizie. La prima ferale, comunicava che l'affare degli stampi per i rossetti ed i mascara su cui speravamo tanto era sfumato a favore di una ditta coreana, l'altra, che da una finanziaria canadese erano arrivati i soldi per la prima linea di riempimento di acqua minerale e che il contratto poteva partire senza altri indugi. Grandi festeggiamenti; dalla cucina Angela arrivò con una cofana di spaghetti appena scolati, il parmigiano, appena arrivato dall'Italia, come se piovesse e lo stappo di una bottiglia di champagne (bulgaro) segnò il successo dei nosti sforzi. Ma le valigie erano pronte, dopo due ore eravamo già all'aeroporto secondario di Domodiedovo dove un rabberciato Ilijushin ci avrebbe portato prima di sera a Ekaterinburg che, anzi ancora si chiamava Sverdlosk.

giovedì 10 dicembre 2009

Notte allo Spiektr.


Eravamo dunque tornati a Mosca. Dopo quasi un mese di viaggio in cui avevamo attraversato l'occidente dell' URSS, dopo sette notti passate sui treni, dopo aver tastato il polso, malato, di un paziente che si era preso una bella botta e non aveva ancora capito se sarebbe guarito o se era destinato a perdersi completamente, ritrovavamo una Russia diversa, preoccupata ed incerta sul futuro, con le stazioni della metro che si popolavano di una nuova fauna di anziani in cerca di qualche mezzo di sostegno, vendendo qualcosa, disegnando ritratti o facendo qualcosa di completamente sconosciuto prima, chiedere semplicemente l'elemosina. Mosca, però, non aveva perduto l'appeal del centro dell'impero e mi pareva davvero di essere tornato nella civiltà. Nell'appartamento che ci fungeva da ufficio, in un bel quartiere di case antiche (e le scale con tutti i gradini regolari) il rumore della macchina da scrivere di Angela aveva un suono familiare ed il ticchettio del telex, ti faceva sentire vicino al mondo come lo conoscevi. Rivedemmo parecchia gente che avevamo conosciuto nel giro e che si erano precipitati a Mosca per definire qualche progetto, dal Coreano, un intrallazzone con due fessure sottili al posto degli occhi, che non beveva mai vodka, a Kostija che avevamo conosciuto in treno e che voleva rappresentarci a Stavropol, a Kiril con i suoi problemi della linea di riempimento della vodka, a Marat che ci guardava inorridito mentre brindavamo al suo prossimo matrimonio, divorando spesse fette di salame italiano, senza pensare che lui era mussulmano osservante. All'imbrunire andai a Novodevichy, il monastero delle vergini, silenzioso e coperto di neve. Bellissimo e cristallizzato nel gelo della sera; deserto e silenzioso col suo cimitero con le lapidi dai nomi famosi, Scorrevano davanti a me, anche se cercarli costò un po' di fatica Cechov, Eisenstein, Bulgakov, Gogol, Stanislavsky, Khrushchev; che emozione camminare in questi luoghi. La storia russa al completo, che 'a livella aveva confinato in questo lembo di terra coperto di bianco. Me ne tornai in albergo tranquillo dopo una visita ad un Berioska, uno dei negozi per occidentali che stavano per essere sorpassati dalla storia. Alla mia visita successiva, non li avrei più trovati, tutti sostituiti da profumerie dai nomi occidentali e pieni di griffe famose. Anche l'albergo era cambiato. Non eravamo più al tetro Pekin, uno dei sette grattacieli staliniani in stile neoassiro, brutte copie dell'Empire State Building, ma in una delle nuove realtà del cambiamento, un alberghetto "commerciale", tutto quello che era di iniziativa privata era chiamato così. Si chiamava Spiektr, un nome una garanzia. Una decina di camere in una casetta antica e bassa a due piani, il vero opposto del falansterio sovietico in stile pensione Mariuccia. Le tenutarie erano due sorelle di enormi e generosissime dimensioni, agghindate come alberi di Natale, che vestivano sempre camicette bianchissime di pizzo, stirate con cura, anche se di puro poliestere che emanava tremendi sentori corporei anche a buona distanza, a causa del calore torrido che regnava tra quelle mura. Era imbarazzante, anche se compensato dai grandi sorrisi che Tanija e Irina dispensavano portando i cetrioli e la smijetana per la colazione. Il luogo era tranquillo ed aveva un non so che di familiare e, anche se un gruppo di coreani della Samsung che lo popolavano, aveva l'abitudine di giocare a Gim tutta la notte, ti dava una sensazione di calore. Al limite bastava spegnere un po' i termosifoni di notte per non morire arrosto. Riuscii anche ad avere una telefonata con l'Italia (non c'erano ancora i telefonini allora) ma sentire la mia bambina che piangeva perchè non tornavo ancora a casa, mi mise una gran tristezza. Andai a dormire presto, l'indomani arrivava R. dall'Italia e dovevamo prepararci per il giro in Siberia.

sabato 5 dicembre 2009

Rosa salmone.


Lasciammo Riga che era già buio pesto e si arrivò subito alla frontiera creata da pochi giorni. Erano le due di notte. Qui capitò l'avventura più preoccupante dell'intero viaggio, ma avendone già parlato qui, ricordo solo che si corse il rischio di rimanere per sempre nei due kilometri di terra di nessuno, in mezzo alla neve, in pigiama, a meno venti. Lo scampato pericolo, provocò una sorta di choc termico al povero Eugenio che prima di prendere sonno, mi fece vincere due partite a scacchi di seguito, cosa mai più accaduta in seguito. E finalmente fummo a Mosca, dopo quasi un mese in cui avevamo percorso tutta la parte occidentale dell'Unione Sovietica. Ne eravamo partiti quando era capitale dell'URSS e ne ritornavamo che era diventata capitale della Russia. In quelle tre settimane si era sfaldato un impero, sulla carta, seconda potenza del mondo, ma corroso nelle fondamenta da una marcescenza a lungo nascosta sotto il tappeto e sulle sue ceneri erano nati 15 stati, economicamente sull'orlo del baratro, nel quale precipiteranno rapidamente i più deboli tra questi e dal quale i più ricchi di materie prime (Russia e Kazakistan) vedranno il fondo prima di preparare una lentissima risalita decennale, colma di situazioni terribili per la gente comune, che in fondo aspirava soltanto a trovare dei negozi dove comprare un paio di jeans. Non fu loro risparmiato nulla nel decennio successivo, iperinflazione che distrusse tutti i risparmi e annullò i redditi di pensionati e poveracci, chiusura della maggior parte delle attività economiche, crescita esponenziale delle malavite, con una insicurezza impensabile fino a pochi anni prima, finanziarie piramidali che spolparono i pochi soldi rimasti, la crescita e la presa di potere dei furbi e di molti malandrini e soprattutto una depressione psicologica senza pari, derivata dalla presa di coscienza dei fatti, quella di essere precipitati dall'essere il secondo impero del modo (in lotta per diventare primo) alla constatazione di essere al fondo della classifica del benessere. Capitali occidentali arrivarono, ma per entrare e salvare le fabbriche che facevano missili, le riciclavano in linee di riempimento della Cola; gente di tutto il mondo, interessata e volpina, giunsero a spiegare loro come erano sciocchi e incapaci, pifferai che indicavano la giusta strada, gatti e volpi che conducevano i neofiti del mercato ai nuovi e promettenti campi degli zecchini. Una gigantesca frittata si rivoltò in un paio di mesi e chi non aveva la forza, la capacità di adeguarsi subito e di seguire il carro Tespi della nuova era, fu travolto senza pietà. Lacrime senza sangue, si direbbe e più che un crollo fu come un afflosciarsi su sè stessi ad esasperare la vena malinconica ed autocommiserativa del comune sentire. Dappertutto si avvertiva il timore del nuovo, perchè era ormai chiaro che non sarebbe stato il paradiso sognato e fatto credere da Gorby, ma la nuova terra di nessuno, nata dal golpe di Elzin e della sua ghenga di furbacchioni. Un far west selvaggio dove sarebbe partita una fase di primo stadio del capitalismo, con una accumulazione primaria di nuove colossali fortune. Questo spiega molto bene il fatto che Gorby non goda di alcuna simpatia in Russia, contrariamente a quanto si crede da noi e non ho dubbi che sarà ricordato laggiù come colui che ha distrutto la potenza sovietica in cambio di nulla e forse per questo è così popolare in Occidente. Con tali vibrazioni ritornavo sulla Piazza Rossa, il cuore di tutto questo, dove al posto della bandiera rossa, sventolava ormai il nuovo tricolore ed proprio lì che appariva evidente il cambiamento epocale. Di fronte alle mura antiche del Cremlino, i marmi severi e scuri del mausoleo in cui riposa tuttora il cosiddetto salmone (dal colore incredibilmente rosato che gli imbalsamatori hanno voluto dare alla salma) che, fino a poco prima era perennemente assediato da una lunghissima fila di persone che passavano ore in silenzio, battendo appena i piedi al gelo per poter passare per pochi minuti davanti al cadavere mummificato di Lenin, dominavano uno spazio completamente deserto. Solo i due militari scandivano col passo cadenzato il rito del cambio della guardia. Lo stesso silenzio di prima, dove il vuoto assoluto aveva però sostituito il tronfio orgoglio di un fallimento annunciato. Passeggiai a lungo sulla piazza deserta, la stella rosso rubino brillava sempre sulla torre Spaskaija, ma la neve che scricchiolava sotto le suole aveva un suono cupo e le basse luci della Tviershaija lontana, non riuscivano ad alleggerire il buio della notte incombente.

mercoledì 2 dicembre 2009

Pompe baltiche.


Dopo una notte di tregenda, al mattino ero un cadavere che cercava di camminare. Ferox che avevo scioccamente deriso, ben comprendeva la mia difficile posizione nell' equilibrio costante di una espulsione antero-posteriore a seconda dei momenti. Comunque attraversammo a piedi, in qualche modo le strette stradine del vecchio centro di Riga per un importante appuntamento. Si trattava di pompe. Anzi di pompette. La signora Sefaranova, direttrice della fabbrica di profumi, come tutte le donne di potere sovietiche, strabordava da ogni lato ed era dotata di una notevole cofana di capelli biondo cenere che la rendevano ancora più imponente. Accomodatici nella grande sala riunioni, la schiera delle aiutanti provvide ad esibire la serie dei nuovi prodotti. Mentre veniva servito un thé dorato come l'ambra del Baltico, una vera panacea per il mio apparato gastroenterico, assieme a legnosi biscotti lettoni, esaminammo la serie delle boccettine, che avevano un apparenza decente, in linea, volendo giudicare con buona volontrà, con i criteri estetici occidentali, fine ultimo a cui sembrava ormai tutti volessero tendere. L'azienda era nostra vecchia cliente di pompette e spruzzatori per profumi, i cosiddetti "finger sprayers" , prodotti tecnologicamente non banali come potrebbe sembrare al profano; ma la concorrenza era entrata a piedi uniti e ormai anche il vecchio mondo sonnacchioso dell'orso sovietico, che prima si accontentava delle strette di mano e delle pacche sulle spalle, voleva discutere di prezzi. Robe da matti. I coreani erano arrivati all'attacco e avevano fornito una partita di pompette di prova ad un prezzo stracciatissimo, un terzo del nostro in verità, ed il contratto era in pericolo. La prendemmo alla larga, mentre la trombona magnificava la qualità delle pompe con gli occhi a mandorla, rigirando tra le mani i flaconcini, da cui emergeva un olezzo potente di muschio e vetiver. Fortunatamente la potente aggressività del liquido ebbe un effetto collaterale lenitivo sulla mia nausea e sul mio equilibrio espulsivo generale, mentre la discussione procedeva. Continuammo a magnificare la qualità di quelle delicate essenze, dichiarandole pronte per il mercato occidentale, cosa che aumentò il numero dei denti doro resi visibili dall'allargarsi del sorriso di Irina, come la chiamava confidenzialmente Ferox, senza criticare la qualità delle pompe nemiche, come impone l'astuzia commerciale di ogni buon venditore che si rispetti, senza perdere occasione per mostrare, come per non parere, le qualità decisamente superiori del nostro prodotto. Tra un complimento ed un oh di ammirazione, la massa di carne tremula come un budino, a stento trattenuta da pesanti misure contenitive, a poco a poco si sciolse e confessò senza condizioni, che effetivamente le malefiche coreane costavano poco, ma perdevano da tutte le parti, non certo come i magnifici e fidati italijanskye pulverizatory. Accettò così il piccolo aumento che ci meritavamo e ce ne uscimmo a riveder le stelle carichi di boccette omaggiate che, una volta in Italia, alcune mie perfide ma amatissime colleghe, sparsero in abbondanza su un mio maglioncino per scherzarmi, ma il tanfo era talmente lontano da quello che si considera un profumo femminile, che Tiziana lo prese per normale puzza di treno russo.