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giovedì 28 maggio 2009

Bollicine 3: Non di solo pane...


Tirato per i capelli da un gruppo di fedeli lettori, ormai appassiona-tisi alla saga dello champagne degli Urali, vado a stendere la terza e ultima puntata, un prequel che illustra la fase preparatoria della spedizione dei materiali e i fatti immediatamente successivi. Infatti, come si suol dire, è facile firmare i contratti e incassare i milioni di dollari, il problema è che poi qualcosa che funzioni bisogna pur spedirlo e montarlo, se no, non ti lasciano tornare a casa. Mettere insieme un impianto di queste dimensioni, assemblando macchine comprate in mezza Italia, non è semplice e la logistica della spedizione, una volta affittati i giganteschi Antonov che dovevano contenere nei loro ventri capaci delle preziose attrezzature che avrebbero trasformato il vinotto di Crimea, opportunamente sposato ad acqua, alcool, aromi e CO2, in nettare frizzante, prevedeva la formazione di una brigata di una ventina di tecnici montatori al seguito. Questo gruppo disomogeneo, ma motivatissimo dai racconti di qualche veterano, sulle delizie che avrebbero lenito la permanenza sul suolo della Santa Madre Russia, era formato da un gruppo di veneti, alcuni emiliano-lombardi e uno zoccolo duro di piemontesi dell'area del moscato, coordinati da una Stefi motivata al massimo. Ma, come sa chi si è occupato di maestranze in terrae incognitae, per tenere alto il morale della truppa, oltre alla promessa delle delizie di cui sopra, sono necessarie delle razioni di sussistenza che, calmando lo stomaco, rendano più fioco il richiamo della patria lontana. E' quindi vitale aggiungere alle macchine, uno o meglio due bancali di materiali mangerecci tipici, montagne di spaghetti (n.5), sughi e salumi, proporzionati alla durata presunta della permanenza in cantiere. Stefi, pur vecchia del mestiere, era opportunamente stimolata dal capo cantiere, un gentile personaggio a cui Pecèèètto Torinèèse aveva dato i natali, oltre ad un fortissimo accento gianduiofono, il quale, inviato a controllare la chiusura definitiva delle gigantesche casse che contenevano l'intera linea (si dimentica sempre qualcosa), arrivò in ufficio di corsa a chiedere udienza con occhio umido. Era il momento più temuto, forse mancava un pezzo importante della gabbiettatice o i ricambi della nastracartoni o la mano di presa del depallettizzatore o peggio di tutto, il famoso carrello dei ferri, un pozzo di San Patrizio di chiavi inglesi di ogni tipo, chiavi a pappagallo, tirabulloni del 12 e ogni altro ben di Dio da officina che era proverbialmente guardato con bramosia feroce dalle maestranze locali e che, al termine del montaggio, per tradizione, veniva lasciato rubare per un tacito accordo, previsto nel caso nulla fosse stato rubato prima. Ma c'era tutto, qual'era la mancanza dunque? Il nostro pecettese si avvicinò e con cortesia, ma a bassa voce, per non disturbare troppo esalò: "Ma, Stèèèfi, non abbiamo pensato al parmigiano". C'era, c'era naturalmente, una mezza forma che per sfuggire agli occhiuti doganieri era stato sapientemente occultato da Pavarotti (vi ho parlato precedentemente di questo buon Reggiano) all'interno del Cip, un grande contenitore di acciaio che era stato opportunamente riempito anche con centinaia di bottiglie di lambrusco, carburante indispensabile ed apprezzato anche dalla schiera veneta e celate con cura in anonimi cartoni perchè non sbattessero troppo. Gli aerei decollarono portando con sè anche i due tecnici delle etichettatrici, al battesimo del volo, ben legati nei seggiolini tra le casse. Uno in particolare, di giovane età e di poca esperienza, si rifiutava assolutamente di partire ed era stato convinto dopo un testa a testa con un veterano che gli aveva illustrato con dovizia di particolari i lati piacevoli della terra degli zar; al termine fu dura costringerlo a tornare a casa, ma i giovani si sa, son facili agli innamoramenti improvvisi. Effettuato lo sbarco, prese le teste di ponte possesso del territorio, sfuggite le masserizie principali agli uomini della dogana che si aggirarono per un paio d'ore alla ricerca di qualcosa di interessante, sviate da una Stefi ormai usa a questi depistaggi, si prese possesso del campo di lavoro, dove gli acquirenti avevano pensato a tutto per redere più gradevole la permanenza agli amici italiani, incluse due toilette nuove di zecca rivestite di piastrelle e sanitari provenienti direttamente da Sassuolo. Purtroppo, il primo giorno di lavoro, uno dei dei componenti della brigata dei muratori russi, non conoscendo l'uso del suddetto ambiente, riempì entrambi i buchi di cemento a presa rapida, vanificando il bel gesto di benvenuto. Per tutto il tempo si dovette quindi utilizzare il locale raffigurato a lato, tirato su in fretta e furia, mentre per i primi giorni ci si dovette arrangiare alla belles etoiles. Il vantaggio fu che le permanenze in loco erano brevissime per evitare di cadere tramortiti nella cavità. Del muratore non si seppe più nulla, né nel gulag dove ancora oggi probabilmente sverna.

martedì 26 maggio 2009

Notti bianche.

Godendomi questa immagine di pane che ho preso a prestito dall'interessante blog di Bressanini, che si sta facendo alfiere di un movimento per abolire la parola naturale dal vocabolario agricolo-eno -gastronomico -alimentare di cui vorrei farmi parte attiva, non poteva tornarmi alla mente un particolare del mio passato legato al pane di cui passo a farvi menzione. Come ho già avuto modo di raccontare, in URSS abbiamo venduto un po' di tutto nei tempi eroici, così oggi mi punge la nostalgia di quando sono stato panettiere (o quanto meno ho dato il mio contributo laterale alla crescita dell'arte bianca, come si suol chiamare). Una importante fabbrica di vodka (tra le poche attività che erano cariche di cash in quel periodo, eheheheh) aveva deciso di differenziare la produzione, un sano principio economico incentivato dalla perestroika, che li aveva portati alla decisione di aprire un panificio da 30 quintali di pane al giorno. Come sempre ci prendemmo l'incarico di trovare tutte le macchine necessarie. Sì, il pane non si fa impastando amorevolmente la farina e l'acqua con le manone forti di un omone sporco di bianco, ma con tutta una serie di macchine in acciaio inox, setacci, impastatrici a pianeta, spezzatrici, filonatrici, e molte altre fino ai forni finali. Lo so che disturbo una visione bucolica, ma se volete mangiare in maniera decente e igienica, si fa così, anche se qualcuno sogna e descrive con rimpianto malghe boschive in cui ci si fa largo tra le cacche delle pecore. Mentre si montava l'impianto, come da contratto, arrivò in Italia l'atteso responsabile del futuro panificio di cui avevamo richiesto tassativamente la presenza per un training di una settimana presso un nostro panettiere, affinchè, sapendo cosa si dovesse fare praticamente, non mandasse subito tutto in vacca. Avevamo trovato un gentile signore che, coi due figli gestiva un panificio tra Verona e Vicenza. Così in un mezzodì autunnale, eccoci a Linate ad aspettare l'arrivo del tecnico, io e Stefi che l'avrebbe affiancato per superare lo scoglio russo-veneto, un gap insormontabile per la famigliola tecnicamente preparatissima, ma che si esprimeva solo in un veneto strettissimo. Aperte le sliding doors degli arrivi, dopo che tutti i passeggeri se ne erano andati, rimase, ultimo il nostro uomo. Come si dice di solito, perchè al nostro occhio pur abituato, comparve una sorta di Tamara Press completamete inguainata in strettissimi fuseau fosforescenti che accentuavano indecorosi rotoli, testimoni di una pervasiva dieta di votka, patate e burro, sormontata da una complessa incastellatura bionda, studiata con cura per le grandi occasioni. Stupiti ma non troppo, la accogliemmo con i consueti baci ed abbracci, dirigendoci, caricato il valigione corrispondente verso il luogo di lavoro, dove la famigliola ci attendeva festosa per iniziare l'addestramento, inclusi i figliuoli, particolarmente garruli, in quanto preavvertiti dell'arrivo di una Russa in carne ed ossa. Il fatto che il lavoro iniziasse verso mezzanotte proseguendo fino alle otto di mattina, ora in cui padre e i due figli crollavano di stanchezza per lasciare il posto alla mamma che, nel negozio, faceva fuori tutta la produzione notturna nel resto della giornata, per ricominciare la sera, lasciò interdetta la nostra Tamara, che si attendeva al più qualche ora di spiegone dei libri di istruzione, accuratamente tradotti dalla stessa Stefi, la quale, se pur intimorita dal pallore mortale dei due giovani figli che non vedevano la luce del sole da anni, si integrò subito nella situazione , dettando con cura i tempi di lavoro. Inizio alle 23:00 con studio delle macchine, preparazione del pane fino alle 5 di mattina , cottura e sfornamento, gestione del prodotto finito e infine meritato riposo per i previsti 7 gironi di contratto. L'occhio spaventato della nostra amica si aggirava qua e là, mentre il corpaccio si faceva largo tra l'acciaio impersonale del panificio e io li lasciai così, una povera matrioska basita e quasi avulsa, presa tra il pigolare veneto dei panificatori e l'allegria dinamica di Stefi che ormai sguazzava tra michette e grissini (sì c'era anche la grissinatrice tra le macchine fornite). Giocoforza dovevo andare verso altri importanti incarichi e sarei venuto a ritirarli terminata la settimana di duro training. Come prevedibile, Tamara scoppiò dopo la seconda notte e, lasciando nello sconforto i panificatori, disperati di non aver potuto trasmettere i loro segreti pastari, pretese di essere portata a Venezia, sogno imprescindibile di ogni Russa che si rispetti, dove si lasciò trascinare lungo i canali avvolti nella incipiente bruma autunnale, in una gondola in odore di affondamento ad ogni colpo del remo sullo scalmo, mentre a poco a poco l'occhio sognate e amoroso, scordava l'insulto delle notti bianche (per la farina e per la mancanza di riposo). Ripartì serena e non la rivedemmo all'inaugurazione.

mercoledì 20 maggio 2009

Bollicine 2: la vendetta.


Il contratto fu firmato e allora via, in giro per l'Italia a cercare le acconce autoclavi, filtri, mixer (appunto per mescolare acqua, vino e alcool), un impianto completo per purificare l'acqua, un laboratorio analisi, riempitrice gigante isobarica, etichettatrice, depallettizzatore per le bottiglie vuote e pallettizzatore per quelle piene e così via cantando. In pratica dalla pressa e stampo per fare il tappo (rigorosamente di plastica) al pallet di cartoni di bottiglie avvolto di cellophan. Un impianto colossale, che data la fretta (ci misero mesi a decidere, ma poi vollero tutto e subito) doveva essere spedito via aerea. Pensate a tre colossali autoclavi che a malapena stanno su tre TIR! Ci vollero due enormi Antonov (tipo quello che cadde a Torino) che portavano cadauno l'equivalente di 12 camion (o 8 carri armati a scelta) e un Iliuscin più piccolo con le macchine minute che partì da Genova con un piccolo gruppo di tecnici. Ricordo Stefi nel posto del mitragliatore, quello tutto di vetro sotto la carlinga epoi sul sedilino sotto la scaletta di legno, e Beppe su un sedile di fortuna di fianco alle reti che trattenevano le casse, con la 24 ore sulle ginocchia, come un para in attesa del lancio su Guadalcanal. Solo il saturatore per produrre CO2 (per le famose bollicine) dovette essere inviato via terra, sugli aerei non ci stava. Lo stabilimento che avrebbe ospitato l'impianto era colossale, pari a 22 campi di calcio coperti; pare avesse ospitato una fabbrica di carri armati, ma nel disfacimento sovietico bisognava produrre roba più utile e le bollicine sono particolarmente richieste tuttora in Russia. Il nostro impianto pur enorme, sembrava sorprendentemente piccolo, quasi perso in quegli smisurati saloni in cui si concludeva la ristrutturazione. Mentre sorgeva a poco a poco e le macchine prendevano forma, la brigata delle muratrici sovietiche finiva di imbiancare i soffitti; le ragazze, in gran parte di generose dimensioni, appese precariamente con corde come salame da sugo, agitavano i lunghi pennelloni schizzando a destra e a manca i nostri valenti montatori, distratti soltanto da quelle di forme più umane che passavano con le latte strabordanti colore come le occhiate infuocate che lanciavano in tralice transitando tra motteggi misurati. La linea pian piano prese forma; infine, a macchine pronte cominciò a scorrere il liquido vitale, il nettare prezioso ragione stessa della fatica, preparato con cura e inviato verso la sua destinazione naturale, la bottiglia. Ai nostri uomini vennero dunque affiancate le maestranze locali per addestrarli alla conduzione delle macchine. Precisato che il prodotto in questione era ed è perfettamente conforme alla legislazione russa in materia, il suo cammino verso la bottiglia è giocoforza lungo e tortuoso. Dopo la lunga e accurata preparazione (le famose 12 ore in autoclave) i prodotti erano amorevolmente mescolati, aggiunti di zucchero, aromi e bollicine per andare direttamente alla riempitrice. Ora, è risaputo il rapporto di amore e fratellanza che lega queste genti della steppa ai liquidi di ogni genere con percentuali alcooliche, per cui il cannello di pescaggio della riempitrice agiva come un richiamo irresistibile per alcuni di loro, specialmente i più vicini. In particolare l'addetto all'etichettrice, di tanto in tando riteneva indispensabile controllare la costanza di flusso alla macchina, che come si sa non è bene far girare a vuoto, e transitava con costanza nei pressi della stessa succhiando dal cannello per assicurarsi della presenza di liquido. Certo dopo poche ore il rendimento del suo lavoro diminuiva verticalmente e il numero dei suoi controlli aumentava in proporzione. Preso più volte ed ammonito col cannello in bocca, mentre guardava con occhi spalancati a dire che doveva pur controllare che tutto fosse in regola, fu licenziato con disonore, ma dopo poco obbligammo il direttore, preso anch'egli in un rarissimo momento di lucidità, a riassumerlo in quanto era l'unico che aveva capito il funzionamento dell'etichettatrice, macchina delicata che vuol essere trattata da mani amorevoli e competenti. Comunque a poco a poco il progetto andò in porto, le bottiglie arrivavano, i tappi erano stampati, l'acqua depurata, lo "champagne" prodotto, i cartoni costruiti, riempiti di bottiglie, nastrati e pallettizzati, mentre nel cuore dell'impianto, il riempimento, l'ideatore della macchina, un caro amico, che ormai da qualche anno riempie bottiglie per chi non ha più sete (ma anche lì avra trovato qualcosa da imbottigliare spero), chiamato dai russi Pavarotti per la sua somiglianza strutturale, dirigeva l'orchestra dettando i tempi ed il dipanarsi dei ritmi musicali del flusso ininterrotto delle bottiglie. Che suono avvolgente. Il tintinnio delle bottiglie che incolonnate, sbattendo leggermente tra di loro si avviano alle macchine col sottofondo ritmato della pressa che snocciola tappi; il nastro scivoloso che avvia i soldatini al riempimento, mentre il liquido, spumeggiante appunto, fluisce festoso al serbatoio della macchina che in un continuum spazio-temporale, lava, riempie e tappa. Poi la schiera prende un altro ritmo, più concitato, prima la gabbietta, poi il capsulone poi lunetta, etichetta e controetichetta, mantre a lato il suono profondo della formacartoni allarga, forma, inserisce, infine colma di bottiglie e porta al gran finale rossiniano dove tutto si fonde nella sinfonia del grande pallet che ruota vorticosamente avvolto e infine deposto assieme alle centinaia di suoi fratelli nel grande magazzino in attesa di essere caricato. Il lavoro era finito ed emergeva uno dei problemi principali dell'impresa, i furti. Così l'azienda aveva previsto 50 uomini per la produzione e 150 per la security e ogni sera, quando il bus ci riaccompagnava in albergo al passaggio del gate, barriere e filo spinato con sentinelle armate, veniva perquisito in cerca di preziose bottiglie fraudolentemente carpite dagli amatori. Festeggiammo a lungo in albergo anche se la prima bottiglia stappata, quasi provocò una vittima. Le bottiglie infatti, provenienti da una vetreria del Caucaso (altri 3000 km di viaggio) avevano un collo di dimensioni alquanto variabili ed i tappi erano venuti un po' troppo grossi, così che quel maledetto primo tappo non voleva venir fuori a nessun costo, per quanto mani robuste tentassero di estrarlo. Poi, a forza di scuotere qella benedetta prima bottiglia, il manufatto plastico partì come un proiettile ed passando dalla finestra aperta andò a colpire un passante sul marciapiede opposto che, benchè offeso fu convinto a non sporgere denuncia in nome dell'amicizia internazionale. Bollicine a fiumi quella notte, il nettare sublime era stato chiamato Monferrat, come recitava l'ambiziosa etichetta e pare che, specie nella versione alla banana, circoli ancora nella Russia liberata dalla tirannide.

Bollicine

Le quattro del pomeriggio di febbraio a Mosca, significano già notte fonda. Un buio un po' caliginoso, non tossico per i camini, chè il caldo viene totalmente distribuito in teleriscaldamento, ma per il cattivo carburante incombusto delle auto, attutito dalla luce giallastra e fioca dei lampioni ottocenteschi. Così tra radi fiocchi di neve, mentre discutevamo animatamente della fiera conclusa da poco, suonò alla nostra porta Victor. Aveva un cappottino liso che sembrava difenderlo poco dal vento gelato che tirava in Vortnikosky Periulok, ma non sembrava soffrirne mentre entrava, scrollandosi di dosso l'umidità e sbattendo gli scarponi inzaccherati dopo aver attraversato il cortile pieno di auto Zhigulì arrugginite. Ci guardò un po' di sbieco con uno sguardo interrogativo, ma era una falsa impressione data dagli occhi alquanto divergenti tra di loro. Si sedette dopo i saluti di rito e venne subito al dunque. Avendo avuto informazione da amici, che la nostra era una karoshaija firma, una buona azienda, leggesi affidabile in quel periodo, era stato incaricato di richiederci un' offerta per un grosso impianto. A quel tempo, per una azienda a Mosca, non era importante quale tipo di impianti facessi, bastava sapere che tu facevi impianti in generale. Anche se la dimessa figura che avevamo davanti non prometteva molto, ci predisponemmo ad ascoltarlo di buon grado, anche se la necessaria premessa "Dienghy iest", i soldi ci sono, che era stata immancabilmente pronunciata, data la sua ovvietà, non garantiva come sempre che poi ci fossero davvero. Veniva da Celijabinsk, una grande città siberiana al di là degli Urali. Partì subito con decisione. "La nostra azienda vuole un grosso impianto completo per fare lo Champagne" e come per aggiungere il carico da undici, proseguì : "24.000 bottiglie all'ora". La richiesta cadde nel silenzio, mentre valutavamo l'ennesima perdita di tempo, quindi, essendo l'unico che, in base alle esperienze pregresse e non solo per averlo bevuto, aveva un minimo di conoscenze enologiche, cercai di spiegare che produrre champagne non è una cosa semplicissima e che, come prima cosa, bisognava avere le uve a disposizione. Prima ancora che cercassi di spiegare le problematiche del remouillage e del degorgement, abbinate ai kilometri di cantine necessarie a quella produzione di circa 200 milioni di bottiglie all'anno, mi guardò con il tono commiserativo dell'esperto e per zittire subito le mie remore, estrasse un fogliettino dal taschino della giacchetta di pelle nera e, con la gravità che i russi usano quando vogliono dare ufficialità alle richieste, pronunciò la famosa frase: "No, è piuttosto semplice, un mio amico mi ha anche dato la ricetta". Allungammo il collo verso il centro del tavolo per ascoltare meglio e spiegato il foglio di quaderno emersero le seguenti indicazioni. "50% vino, 12% alcool, acqua q.b. (quanto basta), zucchero, aromi, perchè lo vogliamo anche alla frutta, alla banana, alla ciliegia, ecc. e anidride carbonica per le bollicine, perchè lo sapete che lo champagne deve avere le bollicine per essere buono, no? E noi vogliamo fare un prodotto di qualità." Mentre cercavo di riprendere fiato, aggiunse anche che per il vino non c'erano problemi, certo , negli Urali non c'erano vigne, ma lo avrebbero comprato a treni interi da certi amici in Crimea e ci schiacciò l'occhio, quello che guardava un po' più a sinistra, con fare complice. Pensando che la fermentazione in autoclave del peggiore Charmat richiede tra i trenta e quaranta giorni, gli chiesi a quanto avevano pensato per questa fase, per calcolare la capacità dei contenitori, data la ingente quantità di prodotto. Dodici ore, rispose con la noncuranza di chi sa le cose e cerca di farle entrare in zucca ai poco informati e calcando aggiunse: "Io sono l'enologo". Capimmo allora che si poteva fare. Nacque così, quasi per caso, condito di incredulità, il più grosso contratto della nostra azienda nelle gelide terre del nord. Una avventura densa di ulteriori aspetti esilaranti che magari racconterò in un'altra puntata e che ci fu di grande insegnamento. Il cliente, se paga, specialmente se paga in anticipo, ha sempre ragione.

venerdì 8 maggio 2009

Un treno nella notte.

Saranno anni che non prendo un treno. Un mezzo così evocativo e possente. Dal primo che mi ricordo, quando avevo cinque anni e i miei mi portarono a vedere il Carnevale a Viareggio, di cui non mi è rimasto assolutamente nulla, se non il viaggio in cui vomitai anche l'anima; ero uno dei pochi bambini che vomitava anche in treno. E pensare ch era la prima volta che vedevo il mare. Buio assoluto, solo nausea e odor di treno che mi perseguitò per anni fino all'università, con le continue andate e ritorno da Torino, in cui a poco a poco mi riconciliai col mostro che lentamente diventava più affettuoso e domestico, quasi romantico, come diceva il mio amico kendoka e macchinista, mostrando l'orgoglio futurista del locomotore lanciato a fari accesi nella notte sul binario infinito. Massa boccioniana in movimento inarrestabile e travolgente. Ma il conclusivo e coinvolto fascino del treno, l'ho subito definitivamente attraversando le sconfinate pianure sarmatiche, dove il tempo e lo spazio non si misurano. Cento anni non è un tempo, cento kilometri non è distanza laggiù e quante stazioni a Mosca con i grandi treni in attesa lungo le grandi banchine. Perchè questa senzazione di tutto così grande, sarà per lo scartamento maggiore; già, il famoso cambio degli assi con le ruote a Chop, il confine dei due mondi ferroviari. Come ce lo immaginavamo in ufficio il valico di Chop, questo nodo vitale dove nessuno era mai stato, popolato nel nostro immaginario da migliaia di vagoni in attesa di attraversare la cortina, emigranti muti, rigonfi di merci, di ghiotte casse di buon legno che una volta svuotate del loro contenuto tecnologico, sarebbero state litigate dai vari riceventi per costruirsi la dacia campagnola. Poi da Mosca, il mitico vagon coupè, dove farsi il nido per trascorrere il tempo infinito che mancava agli Urali, mentre scorreva il deserto bianco della pianura senza confine visivo. I meno 20° esterni coi + 35° interni, i finestrini bloccati e l'odore di treno russo, dolciastro di notte trascorsa in tuta, misto di calore, sudore, pesce secco, thé caldo nei bicchieri di vetro dentro il portabicchiere col manico di finto argento portato dalla dejiurnajia, una per vagone, grassa e vecchia, con gli occhi tristi a chiedere indisky ily kitaisky chay? Il tavolinetto con una tovaglietta, le tendine marezzate che sembravano quelle di un' isba di campagna mentre le foreste di betulla scorrevano veloci. La sosta di mezz'ora quando si arrivava in una città, con l'improvviso popolarsi di venditori abusivi che invadevano i corridoi con cibarie improbabili, pesci secchi, kolbasà rossi, samagon in bottiglie di vodka riciclate, smietana golosa e poi man mano che crollava lo stato, i piccoli segni dell' agognato liberalismo, ingenui giornaletti porno, barrette di Mars e Snickers, chewing gum e la valanga di vestiario cinese che colossali matrioske strette in maglie di angora pelose a coprire strizzandole, imponenti rotondità, andavano a procurarsi in grandi sacchi al confine con la Mongolia e a poco a poco smerciavano lungo la Transiberiana, arrivando a Mosca con i teli vuoti. Contatti umani in tuta lungo i corridoi nella notte nera, scandita dal movimento costante ed ondulatorio fino all'ultimo minuto, per andare a prepararsi per l'arrivo, che come in tutti i luoghi in cui c'era stato un Lui, avveniva in orario spaccato. Che pace, giocare a scacchi con Eugenio, o chiacchierare con la controllora che non riusciva a tenere la stoppa dei capelli sotto la visiera del cappello, riponendo la pinza obliteratrice negli informi pantalonacci della divisa, mentre ci chiamava Italjianzy, lasciando la parola in sospeso, con occhio sognante e ci raccontava di un suo fidanzato di Rimini, ormai perduto per sempre. Lara, oh Lara, che ti allontanavi nella notte, con la ciocca un tempo bionda, ciondolando il culone informe e nostalgico lungo il corridoio puzzolente. Adesso vado a prepararmi perchè tra un'ora vado, dopo molti anni, a prendere un altro treno, per arrivare alla capitale. Non vomit più adesso, sono cresciuto, la nausea mi prende per altri motivi, in casa, davanti al telegiornale. Avanti, o Roma, o morte.

giovedì 7 maggio 2009

Alla Forteza in Pobieda

Stavo sistemando qualcuna tra le oltre 20.000 vecchie diapositive stipate nello sgabuzzino (ma riuscirò mai a risolvere questo recupero?), quando mi salta all'occhio questa, così mi è venuto in mente un altro concorso a premi. Nel senso che mi è rimasto ancora (quasi) mezzo barattolo di Nutella, circa 2 kg, come sempre virtuale, da mettere in palio. Dove è stata scattata questa foto? Per aiutarvi vi dico che il paese si chiama Forteza genovese (sic). Il vincitore sarà premiato al mio ritorno dalla capitale, dove sono chamato per affari urgenti, di cui vi relazionerò la prossima settimana. Naturalmente non basta la nazione, ma ci vuole la localizzazione esatta e sono esclusi dal concorso i residenti in zona e chi conosce il personaggio di cui vi farò cenno. Valentino appunto. Era stato, se pur ancor giovane, colonnello dell'esercito, ma gli eventi politici avevano pressocchè dissolto questa istituzione e come tanti era stato messo in onorata pensione. Poteva essere una soluzione serena, per godersi una onorevole vecchiaia, ma era subito subentrato un piccolo problema, infatti a causa di imprevedibili stravolgimenti economici, la sua pensione equivaleva a 20 dollari al mese. Anche la moglie ex-bibliotecaria, godeva di pensione, un po' più bassa ovviamente, circa 10 dollari al mese e quindi anche sommandole, c'erano diverse difficoltà di sopravvivenza, stante che al mercato, a quel tempo, un pollo andava via a 5 dollari contanti. Il paese, che come tutti quelli che seguono facili derive populiste, aveva scelto la strada della separazione, tra le ovazioni degli sciocchi convinti a gridare in piazza "Libertà, libertà", stava sprofondando nella miseria più cupa ed il nostro Valentino, tolte le medaglie dal petto si propose a noi come procacciatore di affari. Giravo con lui per fabbriche e kombinat fatiscenti, che si sfasciavano sotto la morsa della ruggine. Strutture vecchie di decenni che tentavano di produrre decimali del vecchio splendore, di produzioni già all'inizio indecenti qualitativamente. Allevamenti di polli semiabbandonati e latterie sociali senza più latte, tutte alla ricerca di nuovi macchinari per riuscire ad uscire dalla crisi, sempre senza un dollaro vero da spendere. Giravamo inutilmente sul territorio con la sua Pobieda, un colossale macchinone degli anni quaranta, una brutta copia di una Packard anteguerra, che a suo dire marciava con qualunque carburante, dagli alcool distillati dalle bucce di patate o altri liquidi improbabili, urina, a suo dire, compresa. Un pezzo raro. Cercava inutilmente di venderla però, per raggranellare un po' di soldi a qualche ricco collezionista europeo, come sognava lui. Rideva di gusto Valentino, con ingenuità, quando partivamo dalla sua Feodosia su strade tutte buchi, per arrivare ad un allevamento di maiali che aveva soldi, questo era certo, e che voleva comprare macchine per fare salami su scala industriale. Aveva lo sguardo più triste, quando la sera ce ne tornavamo con le pive nel sacco ed in tasca l'ennesima proposta di una joint venture norcinesca. Per questo, una domenica mi portò fino a Forteza genovese, a guardare il mare dall'alto, con la testa lievemente piegata , pensando ad un passato appena trascorso, diverso. Rimase poco con noi, senza aver concluso alcun contratto; troppo difficile passare dall'esercito alla bottega.

mercoledì 6 maggio 2009

Oro

Guardavo con attenzione questa foto inviatami da Diego, e in un lampo mi sono rivisto attorno a quel tavolo dalle parti di Taskent o giù di lì. La signora era tosta e serissima. La trattativa andava avanti da settimane e quell'incontro che avevo sperato fosse conclusivo, si stava arenando nelle panie dei dettagli. L'offerta dell'impianto era dettagliatissima, ma lei continuava ad esaminare con cura gli schemi ed i layout con la disposizione delle presse. Poi, quando sembrava conclusa la parte tecnica, ricominciava la estenuante battaglia dei prezzi. Gianni, maestro di trattativa, spalmava grasso virtuale sotto le ruote del contratto per farlo lentamente scivolare verso il porto sicuro della firma, ma come sempre tutto si rivelava più duro del previsto. La madama era una roccia, continuava a fare emergere dubbi, quando vedeva la nostra irremovibilità sulla cifra totale, ritornava sulla parte tecnica, chiedendo più uomini per l'avviamento. Verso le sei eravamo stremati; mentre fuori calava il rosso e polveroso tramonto uzbeko, la presidente, con gli occhi che erano ormai fessure tagliate nel cuoio, manteneva le pieghe della bocca girate verso il basso. Poi la svolta, il ricordo di Venezia, richiamato nel momento giusto da Gianni accompagnato da un congruo arricchimento della lista ricambi, ebbe ragione del carapace inattaccabile e la mano, fece scivolare la penna lentamente ma inesorabilmente verso la sigla del corposo fascicolo. Girata finalmente, l'ultima pagina della terza copia, con l'apposizione (conditio sine qua non) del famigerato timbro rosso rotondo, avvenne il miracolo. L'imperatrice baffuta sciolse la rigidità, le pieghe della bocca si girarono magicamente verso l'alto e le labbra si aprirono come il coperchio di uno scrigno fatato mostrando una splendida, completa, sfavillante ed orgogliosa chiosa di zanne completamente ricoperte d'oro massiccio, che arricchivano la risata cristallina in modo solido e concreto. Oro, ricchezza esibita con orgoglio, eterna fonte di potere, distinzione dal volgo e solido investimento al riparo da derivati e subprimes. Un forte abbraccio, in cui sentii con un misto di timore e rispetto, le fauci digrignate e pericolosamente vicino al mio orecchio e poi gran finale al ristorante, dove la vodka contribuì solidamente a farci partecipare ai balli tradizionali di gruppo. L'oro baluginò a lungo per tutta la lunga serata di festa.