Da oggi potete ottenere sconti su Amazon Italia cliccando qui:

venerdì 30 ottobre 2009

Montone arrosto.


Il cono perfetto dei 5680 metri dell'Elbruss lontano più di cento kilometri si stagliava lontano con le curve precise dei suoi fianchi che si collegavano asindoticamente alla grande pianura coperta di neve, su cui il vulcano si formò milioni di anni fa. (La foto primaverile non vi inganni, l'ho fatta in un'altra delle innumerevoli volte che sono stato da quelle parti). Poi di colpo la notte ci sorprese lungo la strada del ritorno. Alla luce fioca dei fari di quando in quando i posti di blocco, già presidiati da imponenti OMON in mimetica che scrutavano con le torce all'interno delle macchine. Il possaporto dell'Italianiez era guardato più con stupore che con accuratezza e non si leggeva ancora nei loro occhi i bagliori dell' incendio ceceno, di certo manovrato ad arte sfruttando con sagacia le antiche ruggini montanare, che a pochi kilometri sarebbe scoppiatodi lì a un decennio. Ad uno di questi controlli incrociammo un potente fuoristrada targato Asti. Però come gira la gente. Guardando meglio, i quattro ceffi barbuti che la abitavano non venivano certo dalla pigiatura della freisa. "Cecenzy" mi assicurò Andrej, chiarendomi subito dove finivano tutte quelle macchine che vengono rubate dalle nostre parti. Un' altra conseguenza della perestroijka. Comunque, superata l'ultima collina, comparvero in fondo alla valle i primi casermoni di Cerckiesk. Ci aspettavano a cena e passammo a prendere dei fiori per la padrona di casa. Che passione hanno i russi per i fiori. In mezzo ad una situazione che parrebbe tetra e scolorita, nel grigiore bianco sporco della neve che lascia posto alla ruggine ed al fango primaverile, il colore dei fiori deve essere un forte antidoto alla depressione. Anche alla sera tardi potevi trovare un piccolo chiosco aperto dove preparare un bel mazzo. Arrivammo al villone del fratello dell'aspirante banchiere, dove ci attendeva un gruppetto di ospiti riuniti per accogliere lo straniero. La signora gradì l'omaggio floreale, ci fecero un po' di feste, poi le donne, moglie di Andrej che ci aveva accompagnato compresa, si ritirarono a mangiare in un' altra sala. Si sa, i costumi del Caucaso sono alquanto turcheschi. Il villone era recente e voleva testimoniare le improvvise fortune dei padroni di casa, con una grande ostentazione di mobili moderni di importazione, seppure un gran tappeto appeso al muro, dava spazio alla tradizione. Su un grande tavolo centrale imbandito con molti piatti di portata di insalate varie, troneggiava, in un enorme vassoio di almeno due metri, il barano, un montone intero arrosto, tagliato a pezzi minuti a formare una succulenta montagna di carne profumata. Cominciarono i brindisi; nella mia pridlazhenija, d'obbligo per chi a turno alza il bicchiere, parlai a lungo della mia soddisfazione di essere finalmente lì e di conoscere dei veri Circassi, popolazione che mi aveva morbosamente incuriosito fin da piccolo, quando facevo la collezione di figurine dei Popoli del mondo ed ero affascinato proprio dal Cicasso che era raffigurato come un severo e baffuto cavaliere con lunga pelliccia di astrakan. La mia prolusione fu molto apprezzata e la votka cominciò a scorrere lieve. Scoprii al mio fianco un agronomo e subito scattò la simpatia tra colleghi. Con l'aiuto di Zhenija si parlò di agricoltura e mi sembrò di essere a Castellazzo Bormida ad una cena di Coldiretti. Il sosia di Bresniev, aspirante banchiere, naturalmente presiedeva il tutto con fare paterno; spiegò, strizzandomi l'occhio, come la sua fede nel comunismo lo avesse portato ad una posizione importante, così da consentirgli di partecipare, in quel tempo di cambiamenti, alle nuove occasioni che si presentavano. Quando manifestò la serie di problematiche che impedivano l'immediato investimento di una serie di macchine da 50.000 dollari per fare le maglie, capii che della banca, per ora c'erano solo i depliant e che la strada era ancora lunga e futuribile. Lasciammo la compagnia a tarda notte, un po' malfermi ma ancora abbastanza lucidi per evitare il bacio in bocca del baffone sopraciliato, che mi afferrò stretto tentando di soffocarmi in un impeto amoroso dai sentori alcoolici. Del barano, nel grande piatto di finto argento, rimanevano solo le ossa.

giovedì 29 ottobre 2009

Passare le acque.


Con un pulmino sbuffante, tanto che ogni tanto ci si doveva fermare per far raffreddare l'acqua, percorremmo la strada verso est, lungo la riva del Kuban, il fiume che scendeva impetuoso dai contrafforti caucasici e che qui ormai non lontano dalla pianura era già largo e consistente. Le acque scure e impenetrabili allo sguardo, un misto tra il viola e blu scuro, correvano dure e violente come lo spirito di questa terra di monti aspri, isolati e forse proprio questo patrimonio genetico si trasmette alle genti che le abitano, un crogiolo di razze nemiche tra di loro, sempre pronte però a rivolgere verso l'esterno i carichi di odi antichi che nutrono tra di loro. Kabardini, Circassi, Avari, Ingusceti, Ossetini, Balcari, Karaciaievi, Ceceni, Daghestani e chissà quanti altri, tutti con dialetti diversi ma egualmente ostili, come del resto la maggioranza delle popolazioni che sono rimaste chiuse tra i monti, difese dall'esterno ma non da sé stessi. La strada saliva adagio fino al confine della repubblica Kabardino-balkaria dove stesa sui fianchi di una collina rude e coperta di neve ci aspettava Kislovodsk, la perla di questa regione, la stazione termale che gli zar vollero costruita a somiglianza delle cittadine delle acque svizzere e tedesche. La Montecatini del Caucaso. Qui sgorga la Narzan un'acqua miracolosa che il russo medio anela come panacea di tutti i mali. Lo stabilimento che la imbottigliava voleva nuove linee per sostituire le orrende confezioni sovietiche di vetraccio verde sporco. Presentammo un bel progetto, ma ci sarebbero voluti i piccioli e parecchi; si sarebbe visto in seguito, intanto girolammo per la cittadina con le sue costruzioni fin de siècle che si degradavano lentamente per l'incuria. Dalla stazione dove arrivava direttamente il vagone con la famiglia dello zar a passare le acque, lungo una grande arteria centrale ormai spoglia e trasandata, fino alle kursaal di stile prussiano dove una sparuta truppa di curandi beveva con avidità l'acqua miracolosa che sgorgava dalle fontanelle tra le pareti di marmo giallastro. Era il paradiso sognato da Zhenja che qui trascorse almeno due periodi di vacanza con la famiglia. In russo non si usano espressioni come fare le ferie, andare in vacanza e così via. C'è solo un verbo che va per la maggiore, "otdikhat' " che si traduce "riposare". Questo era l'unico concetto di vacanza del lavoratore sovietico. La meritata putijovka, che si poteva avere secondo i meriti o meglio le raccomandazioni per trascorrere un mese al mare in Crimea o sulle rive del Baltico a Jurmala, oppure meglio, in uno dei sanatorij che sorgevano numerosi nei vari posti termali in giro per l'Unione sovietica, da Jangantau, negli Urali a a quelli del Caucaso, proprio fino a Kislovodsk il più ambito di tutti. Magari toccava a te e non a tua moglie, che sarebbe stata premiata nell'anno successivo, ma quello era "riposare". Zhenija mi portava qua e là a mostrami le bellezze del posto, magnificandone la tranquillità e la pace, senza contare i benefici per la salute e roteava gli occhi sognanti, guardando con desiderio il lontano sanatorij che spiccava bianco sporco sul fianco del parco coperto di neve ghiacciata. Anche qui le cose cambiavano rapidamente; fine della putijovka, amico caro, se vuoi riposare te la devi pagare la camera e la mensa pure, con che soldi non si sa, rimuginava meditabondo Zhenija con gli occhi bassi e rancorosi. Stavano aprendo infatti, due o tre locali privati (l'aria della privatisazija stava soffiando anche lassù) e in uno che ostentava tavoli nuovi di legno chiaro mangiammo un paio di pesci secchi con vodka. Bisogna contentarsi quando l'iniziativa imprenditoriale è ancora acerba ma volenterosa. C'erano anche i caffè, con una macchina arrivata appositamente dall'Italia, ci apostrofarono con un sorriso magnificatorio i due splendidi occhi azzurri che raccoglievano le ordinazioni nel locale deserto. Li ordinammo golosamente; erano imbevibili, un saporaccio di gomma bruciata sovrastava tutto. Ci disse la ragazza che nessuno la sapeva usare quella macchina infernale e che si erano bruciati subito tutti quegli strani anelli di gomma che stavano tra il caffè e il vapore, ma il padrone aveva detto che andava bene lo stesso, tanto nessuno sapeva che gusto dovesse avere il caffè all'italiana e quello andava benissimo. 750 rubli cadauno.

martedì 27 ottobre 2009

Fegato di merluzzo a colazione.

Ed eccoci di nuovo sul treno del sud. Anzi, adesso stiamo scendendo dai larghi predellini nella fumosa stazione di Cherckiesk, trascinando tutte le nostre masserizie con l'aiuto di Andrej che si prodiga a farci evitare l'intervento di interessati facchini (per meglio seguire i dettagli del viaggio, secondo suggerimento troverete in fondo una specie di mappa). Era un biondino giovane, Andrej, o perlomeno che sembrava giovane, con l'occhio furbetto di chi ha capito che in un mondo che sta cambiando devi salire sul treno giusto. Caricammo tutto su un pulmino cadente che ci portò subito all'unica struttura ospitativa della città: la gastiniza Kimik, un basso residuato di architettura sovietica di periferia, di proprietà del complesso Kimik appunto. Era usuale a quei tempi in cui in effetti gli alberghi non servivano se non ad ospitare incaricati delle varie organizzazioni, comandati a svolgere una attivività fuori sede, la kommandirovka, di avere delle strutture dove ospitarli. Una bionda e stanca addetta al bancone (erano solo le otto di mattina) emerse da un retro dove ronfava alacremente e stropicciatasi gli occhi azzurri e controllati i documenti, la mia camera (liux) passò di colpo da un dollaro a 35 dollari, essendo io straniero. Per bilanciare, Zhenja si accontentò della camera standardna a mezzo dollaro. Doccia calda per togliere le incrostazioni delle due notti in treno e poi, via decisi verso la colazione, in un club aperto appositamente per la nostra bisogna. Pare che nell'immaginario russo, l'occidentale mangi come un lupo feroce, per cui avemmo fegato di merluzzo con uova, filetto al coriandolo, una insalata, una scodelletta di smietana e gelato. Spendemmo l'equivalente della pensione della mamma di Zhenja che, stravolto dal fatto, svuotò tutti i piatti con una avidità atavica e l'occhio stranito. Quindi si parte per il primo dei molti incontri che Andrej ci aveva preparato. Era una fabbrichetta di maglie che necessitava di ammodernare alcune macchine. Il proprietario ci ricevette con grande entusiasmo. Era un sosia perfetto dei Bresniev nelle dimensioni, negli occhi sporgenti e soprattutto nelle cespugliose sopraccilia, con una tremenda tendenza ad abbracciarti strettamente con finale di classico bacio sulla bocca. Impreparato all'evento ci cascai facendo comunque buon viso a cattivo gioco. Quanti personaggi come questo avrei conosciuto negli anni a venire. Tutti maggiorenti del partito, apparatcniky con cariche più o meno importanti che avevano fiutato l'aria del cambiamento e adesso che spirava il vento della privatisazija si apprestavano a diventare proprietari di tutto, passando da un potere provvisorio alla possibilità, in un mercato quasi selvaggio, di vedere il vero colore dei soldi, quelli veri e verdi, i dollari, quelli con cui si sarebbe potuto fare tutto, questa era la vera libertà. Intanto questo tipo aveva fondato anche una banca, mettendo insieme alcuni amici, con cui si proponeva di entrare nel giro grosso. Non era molto difficile in quel momento avere di queste iniziative e credo che i pochi scogli venissere risolti con metodi alquanto spicci. Comunque, come di tradizione, voleva che ci fermassimo a pranzo, ma avendo già un altro programma, rimandammo per la cena. Non si poteva rifiutare saremmo andati alle otto nella nuova villa del fratello che per l'occasione, il giorno prima aveva proprio per noi ammazzato il montone. Impossibile rifiutare la tradizionale ospitalità caucasica.



sabato 24 ottobre 2009

индийский или китайский?


La notte in treno è lunghissima, interminabile. Per la verità quel treno era sporco e puzzolente da far schifo, un vero cesso, il cesso poi non parliamone, impraticabile. Zhenja era esterrefatto. Lui che mi aveva magnificato la comodità e l'efficienza delle ferrovie sovietiche, non si capacitava di quel cambiamento che, atteso e desiderato da tutti con la speranza di un benessere a lungo bramato (non certo di libertà, cosa di cui si interessa solo chi già ce l'ha), a poco a poco invece erodeva in tutti i campi le poche certezze e le cose già acquisite. Queste si andavano perdendo in cambio di nulla o tuttalpiù di lontane future opportunità. Ricordo la sua faccia sconsolata, quando al mattino tornò nella nostra tana con le pive nel sacco, dopo essere andato a cercare il servizio del thé, dal grande samovar situato in cima al vagone. -C'é solo calda acqua, prego la scusa- borbottò depresso; eppure sui vagoni doveva sempre esserci thé pronto, Indjsky o Kitajsky, indiano o cinese a scelta. -Ecco- cominciava sempre così la frase quando era nervoso - quando c'era Lui, se succedevano mancanze di questo genere, qualcuno avrebbe preso la strada per Magadan. - meditava, quasi nostalgico, rimpiangendo e citando un gulag siberiano che andava per la maggiore ai sui tempi. Eravamo già intanto entrati in territorio ukraino. Alla stazione di Karchov, dove il treno sostò per un po', ci aspettava Alexiej a cui lasciammo un po' di materiale per organizzare gli incontri che avremmo avuto di lì a qualche giorno, quando saremmo tornati. Poi il treno ripartì lento ma costante. Fuori, per quanto si scorgeva tra i ricami del ghiaccio, una infinita terra bianca, solo leggermente ondulata, una serie non scandita di bassopiani privi di punti di riferimento. Traversammo il Don vicino al Mar d'Azov senza scorgerlo, tanto mi confondevano le sfumature di bianco e di grigio dell'orizzante lontano. Un mondo alieno quasi impossibile da raggiungere e da vivere. Non una casa, non un paese, neppure lontano. Eppure una cinquantina di anni prima, quanti italiani da queste parti a calpestare questa neve, persi in questo ghiaccio, nei racconti di qualche mio vecchio collega del Consorzio che se l'era fatta tutta a piedi per tornare a casa, lasciando qui, chi qualche dito, chi una gamba, chi la vita. Storie senza un senso di logica in questo deserto bianco. Tornati in territorio russo, il pallido bagliore del giorno comincia a scemare, anche se scendendo sempre più a sud la notte arriva più lentamente. Alle stazioni una coorte di venditori assale i vagoni con mercanzia varia, soprattutto mangereccia, zampe di pollo bollite, pesci secchi o affumicati, uova, pyrosky e polpette, guanti e calzettoni di lana ruvida. Hanno la merce disposta a terra su cassette di legno, che le babuske, qualcuna ancora con i valenky, gli zoccoli di legno e feltro spesso, lasciano per lanciarsi all'assalto dei vagoni. Una vecchietta insiste a lungo, mostrandoci la sua composta di cetrioli, un'altra con un grosso contenitore di smietana vuole riempirci le scodelle. Zhenja è inorridito dai prezzi; in quelle settimane di liberalizzazione e di trasparenza, di glasnost e perestroyka, l'inflazione cominciava a mordere e si intravedeva il triste futuro dei mesi successivi, ma chi non era abituato, chi viveva in un mondo in cui i prezzi erano immutabili da decenni, addirittura sbalzati a rilievo sulle scatole di latta dei biscotti e del thé, tutto questo straniva e spaventava. Lui che viveva di certezze, era come sbalordito di fronte a questi cambiamenti così imprevisti, così negativi a fronte delle aspettative. Benvenuti nel libero mercato, ragazzi, sembravano dire i venditori di barrette di schifezza dolce similMars a 500 rubli cadauna. Zhenja che fino a tre anni prima era felice perchè ne guadagnava 300 al mese, guardava senza capire bene quello che stava succedendo, il futuro prossimo che si stava preparando. La seconda notte fu meglio della prima. Non sentivo più la puzza e la stanchezza accumulata mi fece dormire. Al quarantunesimo minuto, dopo le 31 ore previste, il treno entrò lento nella stazione di Cerkiesk, con trenta secondi di anticipo sull'orario. Io ero stupito, Zhenja, invece si era rasserenato, finalmente una cosa normale, come tutto dovrebbe essere. In fondo alla banchina, stretto in un cappotto liso, ci aspettava Andrej.

venerdì 23 ottobre 2009

Odore di formaggio.


Che lunghi i treni russi! Non se ne vede la fine, né la locomotiva che scompare lontano, in cima al binario nel buio della notte. Salimmo nella vettura numero 6 trascinando il bagaglio alla ricerca del nostro scompartimento. Non c’era la vettura coupé con gli scompartimenti da due e il nostro aveva quattro letti che avevamo acquistato in blocco per poterci barricare dentro al sicuro. Ci mettemmo subito nella cosiddetta tenuta da viaggio, pantofole e tuta a più strati. Il viaggio in treno in Russia ha una valenza diversa che da noi; a meno che non si tratti di una eletricka locale per pendolari che si muove entro i cento kilometri; così i viaggi in treno sono infiniti e possono durare giorni. Si dice là che cento anni non sono un tempo e cento kilometri non sono distanza. Gli spazi sono infiniti e uguali, le ore non hanno lo stesso valore. Ci si prepara ad affrontare questo momento come un periodo della vita da trascorrere comodamente, se possibile. Il numero di strati della tuta è riferito alla possibilità di trovare temperature molto differenti tra di loro, la presenza variegata di ogni sorta di pantofole giustifica la terrificante puzza di formaggio andato a male che aleggia nell’aria viziata dei vagoni, dove i finestrini sono tutti bloccati a causa del freddo esterno. Per fortuna dopo una ventina di minuti il cervello si adatta e la puzza scompare dalla mente in modo automatico. Già il freddo. Normalmente ci si aspetta che lo scompartimento sia una specie di forno ad oltre trenta gradi, ma quella volta, come altre, il riscaldamento funzionava poco mentre la temperatura esterna continuava a scendere. Quindi equipaggiamento pesante, mentre sul finestrino i fiori di ghiaccio delicati e leggeri si allargavano sulla superficie. Però non eravamo stati fortunati, dal nostro schermo sul mondo esterno adesso buio e gelato, penetravano sibili di aria tagliente. Utilizzammo quasi tutto il nastro adesivo che avevamo con noi per le emergenze, al fine di chiudere buchi e fessure. Il treno si mosse adagio e silenzioso, prima di lanciarsi verso sud sul binario infinito. Avevamo ormai sparso le nostre cose per rendere più umana la nostra permanenza in quel luogo ostile, quando la capa vagone, una nanerottola infagottata in una divisa sciatta e sgualcita di due misure più grandi del necessario, bussò alla nostra porta e con occhio astuto ci comunicò che essendoci due posti liberi ci avrebbe mandato altri due passeggeri. A nulla valsero le proteste di Zhenja che mostrò, biglietti alla mano, di aver pagato per quattro posti. Si accalorava per difendere la posizione, ma dal tono della voce dimesso capivi l’inutilità dell’ opposizione al potere. La voce della guardiana del gulag era tagliente: – Tovarishy, se ci sono posti vuoti ho il dovere di riempirli.- Usava ancora l’appellativo compagni, che stava cominciando ad andare in disuso in quel momento di disfacimento delle regole e dell’ordine. Discutemmo un po’, ma la graduata , che si calcava continuamente il cappellaccio sulle ciocche di stoppa grigia che le uscivano sulla fronte, sembrava irremovibile. Solo la vista dei rubli, la ammansì. Ci accordammo per mille rubli che si ficcò in una tasca interna della giubba mentre trascinava il suo culone lungo il corridoio, fino al suo stambugio. Finalmente soli, cercammo di distenderci a riposare un po’ mentre le scosse del treno erano diventate un ritmo regolare e quasi amico e il mondo esterno una cupa caligine sconosciuta.

giovedì 22 ottobre 2009

Il treno del sud.




Forse qualcuno si chiederà il motivo di questo amarcord sovietico che, credo, se siete d'accordo, ci accompagnerà come la lagna monocorde di una trifonia mongola, anche nei prossimi giorni. Il fatto è che ho miracolosamente ritrovato una agenda dell'epoca in cui mi segnavo con cura gli eventi giornalieri, per me così carichi di nuove esperienze. Aggiungete questo all'abitudine di conservare anche una piccola documentazione iconografica e il gioco è fatto. Dunque ci siamo lasciati ieri mentre andavamo verso la Yugovagsal, la stazione del sud,, con le gambe un filino malferme in seguito alla cena che avevamo avuto con il presidente di una importante fabbrica di vodka, a cui avevamo venduto una linea di riempimento, con al seguito sottopancia ed amica del cuore. Dato che mancava una quindicina di giorni al suo ricovero annuale in clinica per disintossicare il fegato provato dal suo duro lavoro, ci aveva dato dentro con i campioni appena imbottigliati del suo stesso prodotto, coinvolgendoci nei brindisi ripetuti. D'altra parte, come diceva lui, la sua era una malattia professionale, se fosse stato presidente di una miniera avrebbe avuto la silicosi e sarebbe stato anche peggio. Lo riportarono in albergo sostenuto dall'autista e dal sottopancia, mentre la signora che aveva finito una intera bottiglia di Cinzano rosé, cantava allegra Funiculì funicolà. Comunque la stazione era vicina, ma quando scaricammo le valigie dalla macchina, l'ambiente non era rassicurante, giravano ceffi di ogni genere, alcuni a gruppetti con la faccia di chi si spartisce il bottino dopo la rapina, altri appoggiati agli stipiti come avvoltoi in attesa di preda. Zhenja e G. che ci accompagnava, si guardavano attorno con cautela, resi attenti dall'esperienza che in in quel periodo, in cui si stavano sfaldando le maglie di un regime oppressivo e controllore, raccontava di una Mosca particolarmente pericolosa per gli stranieri. I moscoviti, poi, avevano sempre avuto particolare astio per la gente del Caucaso, i cosiddetti culi neri, furfanti e dediti per costume ed inclinazione naturale al malaffare, responsabili di ogni nefandezza che accadeva a Mosca, come si è ben dimostrato successivamente, nella guerra cecena, che tutti in Russia appoggiavano entusiasticamente. Si sa la gente del sud è tutta mafiosa e al più sono solo dediti a far festa suonando la dambrà (un tipo di mandolino) e a mangiare lepioske (una sorta di pizza). Comunque avevamo, tra campioni, materiali di lavoro e viveri di sussistenza quasi cento chili di valigie in due e si imponeva un facchinaggio. Scendemmo con cautela lungo un tetro sottopasso popolato di venditori improvvisati di giornali e cibarie. Un bel cartello sul muro recitava "Servizio bagagli: 40 rubli", ma la cosca dei tartari che aveva in mano il business e che ci aveva subito individuato e circondato, dopo una lunga trattativa si accontentò di soli 10.000 rubli. Un vero affare, prendere o lasciare, d'altra parte, come ci spiegò bene il loro caporale, di stranieri non ne circolavano quasi e anche loro tenevano famiglia. Ci trascinarono i colli lungo la fetida banchina, fino al treno che partiva a mezzanotte precisa. G. mi abbracciò salutandomi e raccomandò a Zhenja di stare in campana. "Prego la scusa - disse lui - ma vado a cercare il capovagone". Così salimmo per trovare lo scompartimento che avevamo prenotato, tramite un amico che ci aveva raccomandato (i biglietti allora non si compravano alla biglietteria, ma tramite "conoscenti") per averlo (pagando il giusto) tutto per noi. Ci aspettavano 31 ore e 42 minuti di viaggio prima di arrivare alla repubblica Karachiajevo-Cherckieskaja.

mercoledì 21 ottobre 2009

Il colbacco di volpe gialla.


Il gennaio del '93 era gentile a Mosca e la temperatura scendeva di poco sotto lo zero, ma G. mi portò ugualmente all'Arbat, pieno di bancarelle, a comprami una shapka degna di questo nome, perchè non si viaggia in Russia d'inverno senza un colbacco decente. Trattammo un po', G. fa sempre una faccia schifata quando deve comprare qualcosa, forse fa parte del suo modo di condurre la trattativa; alla fine ne scegliemmo uno giallastro di volpe che mi piaceva molto con quella sua virgola scura sul davanti. Con venti dollari avevo la testa calda e potevo pensare più tranquillamente, così ha finito per accompagnarmi per anni in tutti i miei vagabondaggi invernali eurasiatici e la tengo cara ancora oggi anche se è un po' spelacchiata, quella vecchia volpe siberiana gialla. Andammo poi al Sadko, l'unico supermercato aperto in quel periodo dove trovare generi di conforto che mi tenessero su il morale durante il cammino. Fuori c'erano le vecchine che riportavano i carrelli per qualche rublo di mancia. Agli angoli, c'erano anche le venditrici di gelati, dei cilindroni di cialda, ripieni di un buonissimo gelato alla panna che sapeva di burro, di latte fresco. Ce ne prendemmo uno da una biondina che vendeva anche guanti fatti in casa. La gente cominciava ad essere intraprendente. Le cose cambiavano rapidamente nell'URSS e stavano sparendo anche i distributori di kvas agli angoli delle strade. Erano degli armadioni di acciaio dove infilavi una monetina da 3 kopechi (sì c'era la moneta da 3), poi, velocemente afferravi un bicchiere di latta legato ad una catenella perchè non se lo fregassero e lo mettevi sotto un getto di liquido opalescente ambrato che lo riempiva fino all'orlo e te lo bevevi col collo un po' storto a seconda della lunghezza della catenella. Aveva un sapore acidulo ma non sgradevole; chissà se qualcuno se lo fa ancora in casa questa specie di protobirra, un fermentato a basso tenore alcoolico di cereali o di qualunque altro scarto vegetale casalingo. Se lo saranno dimenticato anchi i russi oggi, come da noi la miscela Frank che mia mamma metteva alla sera nel caffè e latte. Comunque al pomeriggio la valigia era pronta, i documenti di viaggio anche, il fido Zhenja che mi avrebbe accompagnato, pure; io, che certo avevo un po' di timore, ero però eccitatissimo per quel lungo viaggio che mi preparavo a fare, di treno in treno alla scoperta di una Unione Sovietica per me assolutamente sconosciuta ma fascinosa. Mentre a tarda notte andavamo verso la Yugovagzal, la stazione dei treni che vanno verso Sud, non sapevo ancora che stavo partendo dall'URSS e dopo quasi due mesi sarei tornato nella Russia, un paese nuovo carico di una serie inaspettata di nuovi problemi che i suoi abitanti, così ansiosi di cambiamenti, non si attendevano.
Continua...

sabato 3 ottobre 2009

La mortella.

C'è stato un periodo all'inizio degli anni novanta in cui in URSS non girava un soldo, o meglio non girava un dollaro, perchè di pezzi di carta senza valore ne giravano un sacco e non era semplice portare a casa la pagnotta nella nostra attività di trading, così si pensò di tornare all'antico, recuperando il sistema più vecchio del mondo, quello che precedette l'invenzione del denaro, il barter per dirla in maniera moderna, ovverossia il baratto. Si cercarono i prodotti più classici della santa madre, dal legno, ai concimi, ai rottami di alluminio o al compensato, per arrivare alle pellicce. Niente fare, già tutto in mano a giri di antica data, in cui era meglio non andare a cercare di infilarsi e te lo si faceva capire subito con chiarezza. Così cominciarono a venire fuori le cose più strane e arrivavano in ufficio telex che proponevano materiali di cui prima si doveva capire l'uso e successivamente se quella roba era vendibile da qualche parte. Arrivavano anche campioni ineccepibili per dimostrare la qualità della merce, che per un po' fecero bella mostra di sé nelle nostre bacheche come ad esempio le corna di cervo giovane, disponibili in grande quantità in Čita e in Yakuzjia, che arrivavano già affettate in sottilissime slides (forse con uno strumento tipo mandolina), già pronte per il ricco mercato farmaceutico tradizionale cinese oppure il veleno d'api offerto a grammi, di cui le repubbliche caucasiche sembravano avere grossa produzione. Una volta ci proposero, da una zona siberiana, una bile d'orso in cambio di tre Toyota (veniva assicurato che quella era la quotazione regolare del mercato), ma anche qui, a mio parere latitavano i compratori. Un tizio a cui avevamo proposto una macchina imbustatrice di sementi da orto (il mio passato di esperto sementiero, mi attraeva morbosamente verso questo mondo), ci offrì in cambio un vagone di semi di zucca. Non parliamo dei girasoli ukraini, con i cui campioni andammo avanti mesi a sgranocchiare in ufficio. L'unico affare che andò in porto in effetti furono un po' di TIR di semi di erba medica e trifoglio di pessima qualità per altro, che ritirammo in cambio di una fornitura di caffé. Però il tarlo più grosso che rimase in testa per parecchio tempo riguardava una offerta che si ripeteva di tanto in tanto per grosse quantità di "клюква" di cui il dizionario (invero un po' datato ma preciso) dava il lemma: "mortella di palude". Ce n'erano a disposizione tonnellate e tonnellate. Solo che nessuno sapeva a cosa servisse. Doveva essere una specie di bacca che pullulava tra i sarmati e i siberiani e di cui queste genti evidentemente andavano ghiotti, se ne raccoglievano queste quantità. Qualcuno per caso l'ha vista o assaggiata? Datemene eventualmente conto, per favore. Chissà se l'amico Xesco che fa il cuoco da quelle parti, l'ha mai utilizzata nella sua cucina che mi dice, unisce tradizione e sperimentazione. Rimase un buco nero nelle nostre conoscenze ed ancora oggi, ogni tanto, ritorna alla mente questa, forse, grande occasione perduta. Poi tornò a girare il dollaro e queste cose a poco a poco svanirono nei ricordi. Ogni insuccesso è una opportunità che non si è saputa cogliere e questa dovrebbe essere la riflessione di oggi, cari Michelle e Obama.