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mercoledì 30 settembre 2009

Proposta indecente.

Il Kazakistan è un paese strano, fatto di vaste aree semidesertiche e di grandi spazi contaminati da innumerevoli nefandezze compiute qualche decennio fa. Adesso risulterebbe anche un paese assai ricco e deciso a spendere a più non posso per lasciare il tranquillo medioevo centroasiatico in cui versa da secoli e transitare a pieno titolo nel terzo millennio, come si vede dallo sviluppo di Astana, la nuova capitale sorta dal nulla nel deserto, ma nel momento del disfacimento dell'URSS di soldi ne giravano pochi, in contrasto con la buona volontà di fare che sembrava assolutamente apprezzabile. A dispetto delle decine di etnie che popolano il paese, ad un primo sguardo, senza problemi di convivenza, ma da sempre attendiste alle decisioni del potere centrale assoluto, fin dai tempi di Tamerlano, gli affari, allora si facevano esclusivamente con i ministeri. E, assolutamente in linea con le sane decisioni di un paese che mira alla modernizzazione, appena liberato dal giogo delle decisioni moscovite, ci era giunta una richiesta dal Ministero della salute per un piccolo impianto di produzione di latte in polvere per i bambini, che finalmente godevano delle attenzioni dell'esecutivo dopo anni di dimenticatoio. Ci lavorammo un po' e poi presentammo la nostra proposta, interessante perchè permetteva, con una spesa ragionevole di attrezzare una linea modulare, eventualmente moltiplicabile in futuro, quando le condizioni economiche lo avessero permesso. Ritenevamo la cosa quasi fatta e io mi trovavo a Mosca proprio mentre si attendeva la decisione in merito. Come ben si può immaginare le pratiche ministeriali hanno tempi uguali in tutto il mondo, figuriamoci dove si deve scegliere tra cavallo e cammello. In quel tempo non era ancora entrato in uso il telefonino, le linee telefoniche fisse internazionali, funzionavano in quella parte del mondo con prenotazioni al giorno successivo, così la comunicazione standard era il telex, un imponente ambaradan che faceva bella mostra di sè quasi al centro dell'ufficio, dove ancora non si vedevano monitor di computer. Di tanto in tanto la macchina si svegliava, come un robot dormiente di un romanzo di Asimov e cominciava un ticchettio allegro ed autonomo che risuonava lungo i corridoi e predisponeva all'attesa della novità in arrivo. Così quel giorno al termine della trasmissione, ecco arrivare Anja sulla porta dell'ufficio con la strisciata del telex appena arrivato da Alma Ata tra le mani. Era rossa come un peperone di Cuneo e pareva che il foglio di carta le bruciasse tra le mani. Quasi balbettando disse a voce bassa:" Ministero dice che soldi per latte di bambini non c'è. Ma fa altra richiesta, ma io non posso tradurre. Troppo mi vergogna. Prego scusa, ma non traduco questo." e se ne va lasciandoci interdetti con il foglio di discreta lunghezza sul tavolo. La pruderie delle signore russe è ben nota, perciò fu con molta curiosità che ci accingemmo a leggere il messaggio, che era comunque chiaro nel suo dipanarsi. Il Ministero della salute, ci comunicava infatti, che lo stanziamento previsto per la linea era stato annullato a causa di una mancanza di fondi e si scusava per questo inconveniente, ma richiedeva comunque un'offerta urgente. Si trattava di attrezzare completamente a partire dal knowhow per l'allestimento e proseguendo con tutti i materiali necessari, un pornoshop di medie dimensioni. seguiva un lungo e dettagliatissimo elenco di materiali che spaziavano dalle bambole gonfiabili a differenti attitudini, ad una lunga serie di vibratori di ogni foggia, colore, uso e dimensione (dettagliata in cm, diametri e lunghezze), un congruo numero di cassette VHS (non esisteva ancora il DVD) suddivise per generi e un fornito guardaroba di biancheria particolare. Largo spazio era dato alle attrezzature sadomaso e così via cantando. Per questo progetto il ministero avrebbe reperito senza dubbio il finanziamento. Rispondemmo che la proposta esulava dal nostro business usuale e che pur ringraziando per la preferenza non avremmo potuto presentare un'offerta. Dopo qualche giorno Anja si licenziò per andare a fare la traduttrice presso un ufficio di religiosi in contatto con la Santa Sede.

giovedì 17 settembre 2009

Sogno kazako.

Il Kazakistan è una terra un po' desolata. Quasi tutto deserto e pianure sconfinate. La gente, che probabilmente aveva passato durante il periodo dell'URSS qualcosa di simile a un lungo sonno, sembrava ancora un po' stordita dai cambiamenti provocati dal passaggio alla CSI, di cui però nella vita di tutti i giorni si sentiva poco o nulla. Gente varia anche lì, come in tutti i melting pot, costituita dalle diverse etnie dell'Asia centrale, uzbeki magrolini e barbuti, turkomanni rubizzi, kirghisi più montagnini mescolati alla maggioranza kazaka, formata da personaggi immensi, alti, grossi, dai visi simili a statue orientali. Sembra che ci sia poco da fare in quei posti, invece, il soldo circola bene anche da quelle parti e avevamo clienti anche lì. K. era uno di questi. Se dovevi figurarti le fattezze di Gengis Khan o di Attila questi era perfetto per la parte. Smisurato nell'altezza e nelle dimensioni, dava l'idea di un forza disumana, con mani enormi e dure come tenaglie, ma era la testa quella che più impressionava. Quadrata, completamente piatta davanti, con labbra spesse e gli occhi ridotti a due fessure sottili. Se te lo immaginavi con un elmo a cavallo con una spada in mano, sapevi che non avresti potuto chiedergli mercede. Invece era sorprendentemente gioviale ed allegro, sempre pronto a fare festa e a dare temutissime pacche sulle spalle con le tremende manone, mentre cercavi di schivare i suoi tentativi di baciarti sulla bocca con affetto. Era ricco ovviamente e si voleva sentire munifico come un satrapo orientale, per sentirsi amato dai suoi, come quando regalò mille dollari (cifra esagerata per il posto) al matrimonio di un suo scagnozzo, quando gettava mazzi di banconote ad un gruppo di cavalieri incontrati lungo la strada perche dimostrassero per i suoi ospiti un buskashì, la gara in cui ci si strappa di mano, cavalcando, una carcassa di montone o come quando voleva organizzare un marito appropriato per la nostra Stefania, scelto con cura tra la sua gente migliore. Gli avevamo venduto una linea per produrre ed imbottigliare bibite gasate, ma aveva tanti sogni, tanti progetti. Un sistema di serre per ortaggi, una fabbrica per produrre alimenti per neonati; tutte cose utili al paese e infine la cosa a cui teneva di più un grande albergo moderno come ancora non ce n'erano nella sua città, un po' periferica rispetto alla capitale. Voleva che fosse all'altezza dei migliori del mondo, come quelli che aveva visto durante il suo viaggio in Italia e ci mandammo appositamente un architetto specializzato perchè vestisse da occidente il fabbricato che stava per essere costruito. Fu portato in pompa magna sul luogo dove già sorgeva una fatiscente costruzione a due piani. Qua e là emergevano tratti di calcestruzzo eroso, putrelle corrose dalla ruggine, pietre spezzate sui davanzali di finestre cieche; pareva uno scheletro dopo il bombardamento. Il nostro chiese se quello era l'edificio da abbattere per far posto al nuovo albergo. K. ci rimase male perchè quella era la sua costruzione appena finita, fresca di muratori, che lui considerava un po' il suo capolavoro. Allora non se ne fece niente. Era un candido K., così quando chiedemmo spiegazioni per i trecento euro di extra che ci erano state esposte in fattura, quando lo portammo a pernottare a Venezia una notte sul Canal Grande, ebbe difficoltà a capire un meccanismo estraneo alla sua cultura. Disse che aveva telefonato tutta la notte ad un numero indicato da un canale televisivo e che iniziava con 144, per chiedere che gli mandassero in camera quella gentile odalisca che veniva mostrata nel programma, ma non era riuscito nell'intento ed a tarda notte aveva desistito. Non lo turbammo più con spiegazioni troppo complesse.

domenica 13 settembre 2009

Ricami rossi.

Sono molti anni che non vedo più Zhenjia. Quando l'ho conosciuto cominciava l'inverno russo, con le sue poche ore di luce, il colore giallo delle lampadine e dei lampioni sovietici così fiochi, l'odore di benzina scadente per le strade quasi deserte di auto, con la neve sporca che si accumulava prima di ghiacciare fino a primavera. Mi guardava con sospetto malcelato all'inizio, timoroso come sempre delle cose nuove. Glielo aveva insegnato una vecchia zia nata a San Peterburg prima della rivoluzione, che era stata allo Smolnji da ragazza, che ogni cambiamento porta disgrazie e dolori. E ne aveva viste parecchie la vecchietta prima di morire, ma per lo meno le era stata risparmiato lo sfacelo dell'URSS con tutto quel che stava capitando alla maggioranza debole della gente. Zhenjia temeva sempre che ci fosse sotto qualcosa e quindi cercava di mettersi di lato, diremmo contro il muro, avendo imparato a lasciar passare la furia della corrente per non farsi portare via. Mi divenne amico affettuoso o forse fedele, temendo chissà cosa come sempre, cercando di mostrarsi servizievole, apprezzando che fossi interessato ai suoi racconti del passato. Di quando lo zio che raccontava barzellette sul regime, non era più tornato a casa, una komunalka nelle vie della vecchia Mosca; di quando poco più che adolescente visse con sgomento la morte di Stalin, delle sirene che per quindici minuti lacerarono l'aria per annunciarla in un silenzio tombale, di come si sentì orfano in quel momento; di come si sentiva felice e padrone del mondo, quando ebbe il primo stipendio di trecento rubli come traduttore. Parlava un italiano forbito, con lentezza, scegliendo con cura le espressioni e usando parole ricercate come "corpulento", che gli piaceva molto, anche se non ruscì mai a correggere il forte accento, per cui lo prendevamo un po' in giro. Non corresse mai la sua espressione proverbiale con cui cominciava tutti i discorsi. "Prego la scusa" iniziava sottovoce ed in tono dimesso, sempre timoroso di disturbare e quindi di subire chissà quali punizioni. E dire che la sua famiglia aveva visto grandi fasti un tempo; si favoleggiava delle sette gioiellerie che il nonno possedeva a San Peterburg prima della rivoluzione. Grande giocatore di scacchi, anche nella vita, cercava sempre di avere una seconda ed una terza soluzione ai problemi, una via di fuga, se andava male la prima scelta; questo aveva insegnato la vita a lui, ebreo, in un paese che gli ebrei non ha mai amato, nel migliore dei casi ha disprezzato, come qualche trombone di cliente che ci apostrofava: "Ma com'è che vi tenete quel giudeo?" mentre lui si ritirava nell'ombra. Una vita a prepararsi vie d'uscita, a declinare responsabilità, a scegliere il profilo più basso per non farsi notare, per tenersi nella penombra, eventualmente, se c'era bisogno per dare la pugnalata fatale. Non voleva il thé, ma si accontentava di un po' di "calda acqua" e a all'Hotel Kimik di Cerkiesk aveva rifiutato la camera Liux che per i cittadini sovietici costava un dollaro in cambio di quella Standàrd che costava mezzo dollaro a notte, per non fare spendere troppo alla ditta. Aveva voluto per sé un ufficetto misero, un vero bugigattolo, però situato strategicamente in fondo al corridoio, in modo che si avvertissero nitidamente i passi di chi arrivava e che lo sorprendeva sempre alacremente al lavoro. Quando era venuto a Roma ad accompagnare dei clienti era stato derubato dei pochi soldi che aveva da alcuni zingarelli davanti al Colosseo e non si dava pace. - Devo essere punito, assolutamente per la mia sbadataggine, nonostante tu mi avessi avvertito.- dichiarava come un mantra in una continua flagellazione, in perfetto stile da autodenuncia alla Lubjianka. Eppure era felice della sua vita, felice di lavorare per una azienda italiana, mai per i tedeschi che odiava senza fraintendimenti. La relativa agiatezza che questo gli dava, lo rendeva sereno anche se continuamente timoroso che tutto avesse fine prima o poi. Era felice a modo suo, pago delle piccole cose che amava. - Sai Enrico - mi diceva, quando ormai si era maturata una certa confidenza - non c'è piacere più grande di quando arrivo a casa, mi metto le pantofole d'orso che ho preso ad Irkutsk e mi sdraio nella mia vecchia poltrona con un bicchiere da 50 grammi di vodka (la vodka va a grammi in Russia) a pensare ai tempi felici. - Non so cosa intedesse per tempi felici; è un'espressione che dipinge bene la melanconia russa che leggevo spesso nei suoi occhi acquosi e gentili. Chissà come se la passa adesso, ma lo spero con quel bicchierino appoggiato sul vecchio bracciolo ed il bicchiere di thé fumante col manico di alpacca, sul vecchio tavolino di Kiev con la tovaglietta dai ricami ukraini rossi. Na sdarovjie Zenjia!