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sabato 28 novembre 2009

Giallo ambra.


Riga, decisamente non era una città sovietica. Il centro vecchio, molto ben conservato, con le sue piccole vie contorte, le piazzette bordate di case colorate, le guglie filanti delle chiese, insomma un colpo d'occhio molto gradevole. Passeggiare per la città ti faceva sentire in una delle tante città del nord europeo con gli scuri pomeriggi invernali ed i lampioni gialli ad illuminare ancoli antichi, selciati irregolari, facciate storiche. Qui il processo di de-sovietizzazione aveva marciato più in fretta, lo si vedeva dai molti nuovi piccoli negozi, dai locali che sorgevano come funghi, nel ristorantini che avevano preso un'intonazione mitteleuropea con orchestrine di archi e un tentativo di servizio svolto con più accuratezza. Inoltre stava accadendo una cosa che lasciò perplesso Ferox e inorridito Zhenija, molti si rifiutavano di parlare russo. Al contrario degli altri stati russi dell'impero che stolidamente cercavano solo un'indipendenza dal potere centrale, per consegnarsi alle camarille locali e sprofondare in una debolezza economica che li avrebba condotti ad un futuro di lacrime e sangue, qui la mentalità era quella della colonia che si stava affrancando da un colonizzatore, riprendendo in mano il pallino e il modus vivendi di un passato ancora recente e ben chiaro nei ricordi di molti. Già saltavano agli occhi, le nuove discriminazioni che si stavano creando, la marginalizzazione, che diventò nel futuro immediato, una vera e propria persecuzione nei fatti, verso la minoranza russa che si era lì trasferita in circa 50 anni e che si intravvedeva già bene, proprio nel rifiuto di quella che era stata la lingua ufficiale. Non a caso le tre repubbliche Baltiche furo quelle che per prime si staccarono ufficialmente a tutti gli effetti dall'impero e diedero inizio alla sua disgregazione. Anche Zhenija cominciava a capirlo e si chiedeva pieno di dubbi: - Ma allora non potrò più venire a riposare a Jurmala?- riferendosi alla lunga e bellissima spiaggia, classico luogo di vacanza sul mar Baltico, un tempo già frequentato dagli Zar, poi popolato da sanatory pieni di lavoratori meritevoli. I tempi erano maturi per un drastico cambiamento, ma Riga rimaneva sempre bella, specialmente dal mare, proprio il mare davanti a Jurmala o quello davanti all'estuario della Daugava, completamente ghiacciato per kilometri. Che sensazione strana, quella di camminare sulla banchisa nel primo pomeriggio, mentre già la luce stava scendendo e le ombre del pallidissimo sole nordico, già lunghissime, svanivano fondendosi con l'oscurità incipiente. Anche la riva era coperta di ghiaccio increspato come il mare, quasi che le onde stesse, scivolando sulla rena avessero voluto mantenere una forma che ne manteneva la memoria, quasi che il freddo avesse congelato l'idea di onda prima che quella dell' acqua. Una riva del mare in cui i cercatori scovavano l'ambra del Baltico, anche in blocchi enormi di alcuni chili, oppure in piccole gocce dall'apparenza tondeggiante ed irregolare, alcune quasi bianche e dorate come il miele di acacia, come lattiginose, altre più scure, trasparenti e traslucide come quello di castagno; qualcuna con piccole inclusioni, insetti o pagliuzza che ne accrescono il valore e la bellezza. Qui è il regno di questa resina fossilizzata e si trovavano facilmente oggetti e lavorazioni in questo materiale, così ci si poteva sfogare negli acquisti dei regalini da portare a casa prima di una gradevole cenetta a base di salmone su letto di patate e crema di gamberetti, in un piacevole ristorante, mentre un quartetto di belle signorine suonava Mozart su una piccola pedana laterale. Ma non tutto era ancora collaudato e a punto. Appena rientrati, la vendetta di Odino si abbattè su di me col martello di Thor che mi percosse duramente stomaco e ventre. Un andirivieni continuo mi costrinse per tutta la notte, ad una conoscenza biblica del water di quel pur gradevole alberghetto. Un contrappasso duro da digerire in tutti i sensi per aver troppo assaporato il ritorno alla civiltà.

venerdì 27 novembre 2009

Bakshish radioattivi.


Il passaggio vicino a Ciernobil lo avevo vissuto con un certo brivido, se devo essere sincero, mentre invece notai, negli scambi di idee sull'argomento, che in quel mondo, si guardava a questi fatti con un occhio molto distaccato e possibilista, nel senso che se c'erano delle situazioni o dei lavori pericolosi, ma necessari, qualcuno doveva pur farli e la questione si esauriva con uno stipendio maggiorato. Tutto ciò era legato anche ad un certo trombonismo diffuso, per cui la forte fibra dei lavoratori russi se ne faceva un baffo delle radiazioni o delle emissioni venefiche di certe aziende chimiche e che tutto si poteva guarire con delle buone bottiglie di vodka. A Minsk, sottovento rispetto a Cernobil, anche se a 600 kilometri di distanza, vedevano la cosa con un po' più di preoccupazione, ma sempre con una certa rassegnazione. Anche qui, la situazione economica sembrava allo sfacelo, forse ancora più che in Ukraina, ma un più stretto legame con Mosca aveva suggerito di denominare la nuova moneta Rubley, forse per non spiazzare troppo i Bielorussi. Non vi tedierò raccontandovi della proposta che ricevemmo per finanziare un impianto per la produzione del furfurolo , partendo dallo sfruttamento delle bagasse esauste, anche perchè ne ho già parlato qui, rimango comunque a disposizione per eventuali spiegazioni tecniche. Voglio invece rimarcare la sensazione di squallore che dava la città, completamente rasa al suolo durante la guerra e ricostruita frettolosamente con una serie interminabile di parallelepipedi grigi e cadenti simili a quelli della periferia di Berlino Est, anche in pieno centro. Il nostro contatto, Vladimiro che, come secondo lavoro faceva l'accompagnatore della locale squadra di calcio, ci portò ai vari appuntamenti con la sua Zigulì attrezzata di tutto punto, incluso un radar che segnalava con un ticchettio accelerato, una specie di contatore Geiger, la presenza delle auto della polizia in agguato in ogni angolo ed ansiose di raspare soldi ai pochi privati proprietari di auto. Infatti, non appena avvertimmo il pigolare dell'apparecchio, rallentò vistosamente, giusto in tempo per potersi fermare senza scivolare sul manto nevoso, alla esposizione della paletta di stop di una pattuglia acquattata dietro un cumulo di neve sporca. Venuto però meno l'argomento della velocità, ci contestarono la mancanza di cinture di sicurezza, oggetto introvabile in URSS, ma evidentemente obbligatorio. Pagammo con un mazzetto di rubley che scivolarono nella capace tasca del Gay (è la sigla della polizia stradale, non pensate male) che purtroppo aveva finito il blocchetto delle ricevute, ma ci aiutò a rimetterci in strada con un ampio gesto del braccio. Come avevamo previsto la Russia Bianca poteva dare assai poco in termini di scambi commerciali e arrivammo in anticipo alla stazione per passare l'ennesima notte sul treno per Riga. Purtroppo, Valery doveva aver combinato qualche pasticcio per i nostri biglietti ed la capavagone sembrò irremovibile, il treno era al completo ed i nostri biglietti non valevano per qualche motivo misterioso. Mentre confabulavamo sul da farsi, una vecchina di fianco a noi cominciò con un pianto sommesso a pregare il cerbero. Doveva essere assolutamente a Riga il giorno dopo per un funerale e anche lei stringeva tra le mani un biglietto, evidentemente della categoria di quelli non valevoli, come il nostro. Le lacrime scendevano copiose, ma con l'alterigia del potere conferito dal cappello con visiera e dai gradi esibiti sulle mostrine, la poverina fu rimproverata aspramente e respinta senza pietà. Se ne andò muta e china, borbottando maledizioni. Cominciai a paventare che saremmo rimasti a Minsk per sempre, mentre il vento gelido da sud avrebbe continuato a spalmare su di noi il Cesio e lo Stronzio che volavano liberi e leggeri nell'aria come coriandoli nel carnevale radioattivo. Prendemmo da parte la donna, chiarendo subito che non volevamo certo sottrarci ad un corretto pagamento dei biglietti, pur di trovare la persona giusta per farlo. Subito si rabbonì e poco dopo riuscimmo a sistemare i pesanti bagagli nelle cappelliere dello scompartimento numero 7. Mancava ancora una mezz'ora alla partenza, ma non fummo più disturbati.

giovedì 26 novembre 2009

Patatine fritte.


Il lunedì mattina, Ferox era ormai sfebbrato e Zhenija tossiva, ma piano, cercando di non disturbare troppo, così andammo ad un incontro con un tizio che aveva un hotel privato da finire, in quanto aveva terminato i soldi ed era in cerca di finanziatori, ma avrebbe portato due amici produttori di patatine fritte, uno dei consumi del futuro, perchè a Mosca stava per aprire il primo McDonald della nuova Russia ed il progresso entrava così a piedi uniti nella sonnacchiosa federazione ed era prevedibile che, come tutte le cose di questo genere, questi consumi di "tendenza" si sarebbero presto diffusi a macchia d'olio anche in periferia. Anche a Kiev, i tradizionali Univermag, che in fondo avevano il loro modello nelle parigine Galeries Lafayette, già prototipate nei Gum di Mosca, stavano soffrendo e si sarebbero presto riciclati in centri in cui la parola chiave era Comersant, il nuovo faro di benessere economico e finanziario. Stava anche per uscire un nuovo giornale con lo stesso titolo, questa era la voglia di libertà che serpeggiava dopo decenni in cui la stessa parola era un insulto. Dunque arrivammo al costruendo hotel del tizio, che in realtà era una casotta privata, ancora molto indietro nei lavori di ristrutturazione per trasformarla in una pensioncina. I due amici in giaccone di pelle nera, avevano portato soprattutto il loro prodotto, l'oggetto del desiderio che volevano confezionare per renderlo attrattivo a macchia d'olio, al nuovo consumatore. Uno scricchiolante pacchetto di coloratissima carta alluminata poliaccoppiata, che avrebbe trasformato in farfalla, il bruco sordido che avevano tra le mani e che in quel momento godeva di una scatolotta di cartonaccio marrone totalmente coperto appunto, dalle macchie di unto che, trasudando dal contenuto finiva col lordare irrimediabilmente la tovaglietta già marezzata che copriva un traballante tavolo. Il problema si presentò subito; bisognava assaggiare quelle che non erano vere e proprie chips, ma delle quadrelle di pasta di patata pressata fritta in un misto di oli di incerta provenienza, valorizzati da una piccola percentuale di olio di colza, quello buono insomma, ricoperte da una patina nera di residui bruciati. Ferox, non ancora fuori dalla intossicazione, si chiamò subito fuori, così dovetti sottopormi a quello che diventò una costante degli anni futuri, l'assaggio obbligatorio di tutte le schifezze alimentari proposte via via dai vari possibili clienti. Mi macchiai subito tutta la mano di olio, la zaffata di rancido mi ostrui i condotti nasali ed il gusto acido e aggressivo mi corrose la base della lingua, mentre cercavo di fare interpretare le smorfie di disgusto per mugolii di apprezzamento. Sono sempre stato un buon attore e i due furono soddisfatti di come il panel di consumatori interpellato gradiva il prodotto e l'illustrazione della macchina confezionatrice e la successissiva enunciazione del prezzo non suscitò particolare scandalo. Sta di fatto che ancora adesso ogni tanto quel gusto di olio bruciato mi rinviene, sarà una malattia professionale. Al pomeriggio ci saltò un altro incontro, per cui decidemmo di fare una scappata all'ICE non avendo niente da fare. E' una cosa tipica degli operatori all'estero. Questo appuntamento di routine, ma assolutamente inutile, viene inserito per far passare il tempo per poi raccontarsi di come vengono buttati inutilmente i soldi delle tasse in questo ufficio inutile nella pratica. Cenammo in albergo per raccogliere le idee e fare il punto della situazione, quando per la serie come è piccolo il mondo, comparve, emergendo dall'ombra della sala semideserta, una vecchia conoscenza, un certo T. che aveva tentato in passato di fare con noi delle società ad alto contenuto tecnologico, di cui vi avevo già parlato qui e che dato lo spessore del personaggio avevamo, per fortuna, perso di vista. Si appiccicò subito a noi, con l'evidente scopo di scroccare la cena, come le signorine che si aggiravano nelle hall dei vari alberghi per occidentali, ma ci attaccò un bottone terribile, spiegandoci tutte le vie per accedere, a suo dire, alle giuste conoscenze, che lui naturalmente vantava, allo scopo di mettere le mani, in quel tempo di penuria di svanziche, su tutta una serie di commodities che andavano dall'urea, alle pellicce siberiane, alla pasta dilegno, fino al fosforo rosso che non sto a spiegarvi cos'è ma è meglio starci lontani. Riuscimmo a liberarcene con la scusa di dover correre alla stazione, dove a mezzanotte ci aspettava il treno per Minsk. Uscimmo di soppiatto dall'hotel, trascinando i pesanti bagagli lontano dagli occhi dei famelici tassisti che pretendevano un ulteriore pizzo di 10 dollari, mentre un nostro uomo ci attendeva su una piazzetta timoroso che gli tagliassero le gomme. Al treno trovammo Valery e madamìn, preoccupati che ci fossimo persi, che ci salutarono commossi con grandi abbracci; i nostri dollari, si allontanavano con noi e a loro venivano le lacrime agli occhi. Le stesse che vedemmo scendere copiose dalla glaucopide e biondocrinita capavagone, che ci raccontò di essere stata mollata venti anni prima da un italiano bruno e ingannatore che, dopo averla delibata, era scomparso lasciandola ad accrescere in modo irrimediabile, la sua prorompente steatopigia. La ferrovia passava a 40 kilometri da Ciernobil, quella notte non sembrava facesse poi così freddo.

lunedì 23 novembre 2009

Un portasigarette.



La domenica mattina, alzarsi fu più duro del solito. Feci un giro di camere paraospedaliero, con somministrazione di Plasil a Ferox, la cui nausea cominciava a placarsi e che avrebbe approfittato del giorno festivo per rimettersi e abbondanti supposte a Zhenija il cui inizio di polmonite (ma leggera) non dava segni di miglioramento. Valery e compagna ci tenevano ad accompagnarmi in giro per la città, così lasciai il lazzaretto per una lunga passeggiata attraverso i parchi di Kiev coperti di neve. Dal monastero sul fiume all'Università, a San Vladimiro, tutte le chiese erano piene di donne che ascoltavano il canto sonoro e forte dei pope schierati davanti alle iconostasi maestose. Anche lì il cambiamento era stato rapido. Questa lobby, per nulla vinta, se pur combattuta più o meno duramente per settanta anni, aveva preso vigoria in un attimo e si presentava come uno dei centri di potere più vitali dei futuri equilibri. Nei parchi che si susseguivano lungo il Dniepr, solo silenzio, rotto dal sibilo cadenzato degli sciatori che li percorrevano in ogni direzione, lasciando tracce precise e profonde sulla superficie bianca. Era proprio bella Kiev, in quel febbraio gelido e quasi immobile, intorpidita sotto la neve, vergine compassata da conquistare, ma rispettando i suoi tempi, le sue timidezze. Tanija aveva portato delle cosce di pollo in un cartoccio, che sgranocchiammo fredde su un belvedere aperto da cui si indovinava la riva opposta, lontana del fiume ghiacciato. Nel quartiere vecchio trovammo una piccola bottega aperta. Era una specie di rigattiere antiquario, piena di cose strane, mobiletti d'epoca mezzi rovinati, icone sbocconcelate, servizi spaiati, stoviglie. Scavando come in una vecchia miniera abbandonata, trovai una piccola cosa deliziosa che mi accalappiò immediatamente. Ne ho già parlato, ma mi accorgo che avevo sbagliato la localizzazione, così la riprendo perchè, come spesso mi accade, non sono mai attirato dagli oggetti in quanto tali, ma da quello che nascondono, dalla storia che vogliono raccontare. Era un piccolo portasigarette di una lega povera d'argento, che lì chiamavano melkior, in sè nientaffatto appariscente, ma che portava dietro un' incisione, una dedica: "Милому моему котику - Al mio caro gattino" e una data 1917 con una sigla DK. Che storia straordinaria! La contessina Dashija Kusnetsova, bellissima e fragile, appena uscita dallo Smolny di San Peterburg, che trema d'amore per un tenete biondo della guardia imperiale, appena conosciuto a corte. Al gran ballo glielo fa scivolare tra le mani e lo saluta. Domani Kostantin L'vovic Ponomarijov, partirà con il suo reggimento. Forse non si videro più e in quella data, le nubi nere del diluvio che stava per spazzarli via dalla storia erano pronte ad aprirsi, mentre loro, sfiorandosi le mani non visti, nulla presentivano. Ho visto troppi film di serie B, evidentemente. Ma quando lo tengo tra le mani, quel portasigarette, non so perchè, ancora si accendono i candelieri del salone delle feste, sento un frusciare di abiti ampi, uno sbatter di tacchi. Forse era solo la neve che scivolava dai tetti ed i colpi secchi dei ghiaccioli che si rompevano sul marciapiede sbrecciato.

domenica 22 novembre 2009

Tappi colorati di blu.


Il salone della Camera di Commercio di Kiev era pieno di imprenditori seduti attorno ad un grande tavolo che ci attendevano ansiosi. In quel tempo e mi sembra di parlare del Medio Evo, non c'erano telefonini da spegnere prima di cominciare le riunioni, né computer dove mostrare i filmati, né proiettori per le presentazioni, anzi a dire il vero, non c'era neanche la luce elettrica che, durante molte ore del giorno, in Ukraina veniva sospesa per mancanza di Kuponi o Carbovanzy, come altrimenti detti dai locali, un po' come dire svanziche. Così lo show avveniva in modo molto artigianale, ma non per questo meno attrattivo o convincente, anzi era più un gioco da prestigiatore o meglio da giocoliere che alternava la chiacchiera, illustrando depliant patinati, all'estrazione sapiente da una specie di borsa dei miracoli, una variante del cilindro del mago, di campioni colorati e lucidissimi, magari col gioco di prestigio finale della rottura dei ponticelli del tappo con un colpo secco della mano. Sui misteri e le meraviglie dei tappi, magari vi intratterrò un'altra volta, perchè, credetemi, è un mondo affascinante. Quei pezzi di plastica, giravano allora tra le mani degli astanti che se li passavano tra la meraviglia generale, tra mugolii di approvazione o ammirazione silenziosa, alcuni con richiesta mai esaudita di trattenerne almeno uno per mostrarli ai propri uomini, a casa, con promessa di contratti sicuri, altri trattenuti e rigirati più volte, infine posati con dispiacere sul tavolo dove rimanevano a far mostra di sé prima di sparire di nuovo nel loro nascondiglio. Era soprattutto la varietà dei tappi colorati con scritte altisonanti (Coca Cola o Pepsi) o la serie dei pilfer da 60 mm (voglio vedere chi sa cosa sono) vistosamente decorati dalle marche più conosciute, oppure le chiusure di prodotti che già stavano diventando l'oscuro oggetto del desiderio come i tappi della Nutella o quelli del TicTac, a destare l'interesse degli astanti, anche di quelli che operavano in tutt'altro settore. Ma in quel momento, chi si dedicava al business da quelle parti era molto propenso ad improvvisarsi in qualunque ambito ritenesse probabile fare soldi. Poi si dava spazio al Barnum che avevamo di fronte, da cui venivano le richieste più folli. C'era tutto ed il suo contrario, quando cominciava l'esibizione dei vari numeri da baraccone. Dall'imbottigliatore di minerale, dalle proprietà miracolose, inclusa la radioattività (bassa, anche se eravamo a 90 kilometri da Cernobil) e che voleva esportare a due dollari la bottiglia, allo scienzato, un elemento quasi sempre presente, che ha brevetti straordinari da sfruttare, nel nostro caso erano cerniere artigianali di latta per finestre, più un trattamento al laser indurente per il legno tenero al fine di farlo diventare come il miglior noce. Un'altra volta uno aveva proposto un trattamento per far diventare cristallo di rocca il vetraccio. Questa era una costante sovietica, pietre filosofali per trasformare la merda in oro, una ricerca continua ma pervicace che ci inseguì per anni e da cui, ogni volta sfuggivamo a fatica. In mezzo, tutta una serie di proposte che avevano una sola cosa in comune: se avessero avuto soldi, anzi dollari, chè di inutili Carbovanzy ne avevano a palate, avrebbero comprato qualunque cosa, ma siccome per il momento non avevano che le idee, offrivano società miste di ogni tipo, purchè noi si mettesse il grano e loro la fuffa. Quando ce ne andammo, Valery era molto demoralizzato, cominciava a capire che, se quello era il Gotha dell'imprenditoria di Kiev, le sue provvigioni erano ancora molto lontane a formarsi e si stringeva, sempre più ingobbito, alla biondona che gli portava la cartelletta. Quando scoprimmo che da tre giorni non mangiavano, facemmo sosta in una stalovaija puzzolente, dove fecero il pieno, mentre il morale risaliva a poco a poco. Tornando in albergo ci fermammo a Sant'Andrea, un gioiello con tutte le sfumature dell'azzurro come i tappi del mio campionario, dagli spigoli bordati d'oro zecchino che spuntava dal bianco su una piccola collina. La salita che mi conduceva ai gradini di marmo era un po' un pellegrinaggio espiativo per la giornata perduta. Il rumore scrocchiante delle suole sulla neve, accompagnò come un mantra il mio ansimare di obeso incipiente, mentre il fiato umido si rapprendeva in ghiaccioli duri intorno alla bocca. E' certamente vero che la bellezza salva il mondo. Tornai in albergo sereno. Da Mosca era arrivato Ferox, che mi aspettava in camera febbricitante, in preda ad una intossicazione, in un andirivieni continuo tra water e vomito.

sabato 21 novembre 2009

Cupole dorate.


Il termometro della stazione segnava -20° C e anche la notte era stata dura, sul tredo da Kharkhov non riscaldato, ma Kiev coperta di bianco spesso, mi apparve nel mattino ancora scuro, come uno di quei souvenir nella sfera trasparente. Bastava girare e scuotere un poco per vedere scendere la neve adagio, di tanto in tanto. Sembrava addormentata Kiev, intorpidita dalla mancanza di riscaldamento, con qualche tram che passava scivolando sulle rotaie anch'esse coperte di bianco, senza auto, senza passanti, con grandi parchi dagli alberi bassi coperti di galaverna, distesa sulle colline che scendevano verso il Dniepr ghiacciato, come un lago bianco senza neppure i puntini neri dei pescatori davanti al loro buco. Come un presepe, le cupole dorate del monastero di Santa Sofia popolavano il pendio. Uno spettacolo fiabesco appena offuscato dalla foschia azzurra. Man mano che ci si avvicinava, l'imponenza delle sue costruzioni coprivano la vista del fiume e passeggiando per i larghi spazi interni deserti, ti pareva di aggirarti per una antica città abbandonata per qualche cataclisma, una Cernobil del passato da cui gli abitanti erano scomparsi, vaporizzati o fuggiti, lasciando intatto il luogo, che respirava magia da ogni bagliore dorato dei campanili, dai portali socchiusi, dai chiostri segreti. Vidi solo un pope lontano, che subito scomparve dietro una porticina appena tentai di avvicinarmi. Una atmosfera ovattata ed irreale da cui non riuscivo a staccarmi e che mi impediva di sentire il freddo pungente sulle orecchie e sul naso. Sarei rimasto lì per ore; forse è questo il torpore che precede la morte bianca, anche se tutti i tuoi sensi sono accentuati ed ascolti anche le vibrazioni nascoste del luogo, non avverti le pulsioni più normali come i rumori, il caldo, il freddo. Così, perduto nella sindrome del luogo, quasi non mi accorsi dei richiami di Valery che mi spingeva a non ritardare il rientro. Valery era il nostro contatto di Kiev. Era un professore universitario che, non riuscendo più a quadrare il bilancio familiare con i 50 dollari dello stipendio, aveva pensato di mettersi nel business, assieme alla sua avvenente assistente con cui si accompagnava, come ci tenne subito a farci sapere, dopo aver mollato la moglie. Il monastero poteva aspettare, ci attendeva invece, dopo aver frettolosamente lasciato i bagagli in albergo, una importante riunione alla Camera di Commercio dove alcuni dei più importanti operatori economici stavano aspettando con ansia che portassimo loro il nostro evangelo. Raccogliemmo in fretta tutto quanto serviva per lo show della nostra presentazione ed arrivammo in tempo davanti al gran tavolo dove era schierato il fiore dell'economia ukraina del momento.

martedì 17 novembre 2009

Una conversione difficile.


Il giorno dopo Alexiej, non si sa se per il freddo preso rientrando a casa dopo il teatro, era sempre più costipato e camminava un po' ingobbito, avvolto in una spessa sciarpa di lana nera stringendo le spalle nel paltò leggero. Mi aveva portato una serie completa dei Kuponi, tipo Monopoli, per la mia collezione, incluso quello da 3, residuo della mentalità sovietica da cui era così difficile sgravarsi. Zhenija invece manifestava non curanza per le sue placche bianche anginose che gli devastavano le tonsille ed esibiva a unica protezione, un foularino di poliestere colorato, che usciva dalla camicia a difendere la nuda e delicata gola. Era in programma un incontro importante, con una azienda profumiera che intendeva inscatolare i propri prodotti in modo assolutamente occidentale e necessitava oltre che delle scatole e relativo design, di apposite macchine di confezionamento. Assicuravano finanziatori tedeschi affascinati dalla squisitezza delle loro essenze. Ci incontrammo in un condominio un po' cadente dove avevano piazzato i loro uffici. Non so oggi, magari Ferox o Xescochef potranno essere precisi al riguardo, ma in quel tempo era facilissimo capire se una casa era stata costruita prima o dopo la rivoluzione, indipendentemente dallo stile. Infatti dopo il '17 si era persa una conoscenza fondamentale dei mastri muratori. La capacità di calcolo dell'altezza dei gradini delle scale. Infatti in ogni casa costruita dopo la morte dello zar, tutte le rampe di scale finiscono invariabilmente con un mezzo gradino di dimensioni varie, ma diverso dagli altri, per poter arrivare al piano. Questa capacità non dovrebbe essere impossibile da recuperare, perchè forse non è stata perduta per sempre come il secondo libro della poetica di Aristotele, ma questo era lo stato dell'arte allora, a meno che l'uso fosse invalso in spregio al lusso capitalistico e il fare i gradini tutti uguali, non fosse visto dal KGB come una attività decisamente antirivoluzionaria. Sta di fatto che inciampai come un babbaleo nella trappola dell'ultima rampa e per poco non ci lasciai la caviglia. I nostri profumieri ci aspettavano ansiosi, anche se i tedeschi avevano annunciato un forte ritardo, ragion per cui furono subito tirate fuori vettovaglie di ogni tipo per ingannare l'attesa mentre esaminavamo i campioni. Salumi, cetrioli, biscotteria varia erano come di consueto, in minoranza rispetto alle bottiglie di vodka. Arrivò anche il direttore generale, un giovine di belle speranze (tutte queste nuove attività sembravano gestite da giovani biznezmieni vestiti con eleganza) che portava con sé una grossa tanica da benzina, cosa non insolita in quel periodo di ristrettezza. Ma subito, tra il tripudio generale, accantonati i campioni, la tanica venne posata al centro del tavolo e si cominciò a mescere un liquido ambrato in grossi boccali, opportunamente forniti da pigolanti assistenti. Si trattava di una birra fatta in casa dalla famiglia dello stesso direttore, che ci teneva nel modo più assoluto a farci apprezzare la bevanda, a dimostrazione di grande considerazione nei nostri confronti. Cercammo di fare onore, in attesa dei tedeschi, uccel di bosco, che arrivarono verso mezzogiorno, assonnati e cisposi come dopo una notte di bagordi. La nostra offerta, però, piacque molto, sia dal punto di vista tecnico che da quello economico, non c'è santo, nessuno è come gli italiani, sentenziò il più anziano dei crucchi. A poco a poco, si trattava di arrivare al dunque per stringere qualcosa tra le mani nei tre giorni spesi a Kharkhov. Non appena scavammo nella polpa, saltò fuori, con nostro crescente orrore che i tedeschi erano di una ditta ex-Germania Est e che gli unici capitali disponibili era mazzi di Kuponi non convertibili che schifavano ormai anche i vicini Bielorussi. Lasciammo la compagnia al suo destino, mentre Zhenija continuava a cazziare il povero Alexiej, reo di non aver effettuto i controlli necessari. Eravamo ancora troppo in anticipo per gli affari buoni. Ci aspettava un altra notte in treno prima di raggiungere Kiev. Il vagone non era riscaldato e il nastro adesivo con cui sigillammo gli spifferi non bastò a riscaldare i topi morti che avevamo sullo stomaco.

lunedì 16 novembre 2009

Libiamo ne' lieti calici.


Kharkhov era allora una città sonnecchiosa. Noi la attraversavamo con una traballante Zhigulì bianca, passando sotto le cupole delle tante chiese ortodosse, tutte rigorosamente aperte e frequentatissime, accompagnati dal frenetico concerto dei colpi di tosse di Alexiej, più gravi e catarrosi e quelli più secchi e frequenti di Zhenija, che però, assicurandomi che si trattava di broncopolmonite, ma in forma lieve e che quindi stava benissimo ed era perfettamente efficiente, manifestava una insolità allegria nel constatare il degrado economico e di qualità di vita che ci circondava. Il fatto che gli chiedessero rubli al posto dei cuponi lo metteva di buonumore, una rivincita netta del suo status di russo così compromessa dal disfacimento dell'URSS che si avvertiva ogni giorno di più. Passammo in un supermercato, una mia fissa, quando sono in un posto che non conosco. E' sorprendente quante cose si capiscono della situazione di un paese, nei luoghi di commercio, guardando le pubblicità in TV o semplicemente osservando le vetrine dei negozi. Comprai tre rasoi elettrici per un totale di quattro dollari, utilizzando lo spread tra la velocità dell'inflazione e la lentezza della burokratija sovietica nell'aggiornamento dei prezzi, mentre le commesse mi blandivano in quanto italiano. Si era già sfruttata questa opportunità a Teberda quando per un dollaro ci eravamo comprata l'opera completa di Majakovsky, rilegata in nero, per Stefi, lasciando per probabile mancato utilizzo, delle belle mazze da hokey che venivano via a 20 cents cadauna. Altro che derivati. Il nostro ossuto Caronte per tre giorni, ci traghettò da un incontro all'altro, tutti con una caratteristica comune, la più totale e completa mancanza di soldi veri. C'era evidentemente, un notevole fermento di iniziative commerciali, con nomi fantasiosi come il grossista "O la borsa o la vita" o la gioielleria Ukranian Beauty ed anche le fabbriche come quella dei rasoi di cui ho già parlato o gli inscatolatori di interiora di pesce macinate e colorate di nero a simulare malamente un improbabile caviale. Erano tutti convinti che il commercio fosse una fonte miracolosa di montagne di dollari. Se era considerato un criminoso mezzo di arricchimento fino a pochi anni prima, significava che bastava aprire una attività commerciale per vedersi piovere addosso cascate di denaro facile. Ognuno che aprisse una rivendita di cioccolata o di televisori era certo, in qualche mese, di poter aprire una banca, perchè anche lì era chiaro che così sarebbero poi arrivati i soldi veri. Ma la realtà è sempre un po' più dura e complessa. Ad esempio alla fabbrica di gioielleria dove si contava di piazzare un ordine di scatolette, si accorsero che queste costavano più dei "gioielli" stessi e così ce ne andammo anche da lì sperando in un futuro migliore. La zhiguly esalò l'ultimo respiro e contemporaneamente bucò squarciando una delle gomme, liscia come la pelle di un neonato. Attraversammo allora il Gorky park a piedi nella neve poco profonda, calpestando le tracce lasciate dagli sci di fondo che percorrevano i lunghi viali di alberi carichi di bianco. Si sentivano solo le nostre risate ed i colpi di tosse dei malati che arrancavano con fatica. La luce gialla e bassa dei lampioni rischiaravano un poco l'oscurità del pomeriggio invernale, ma per la serata Alexiej ci aveva preparato un coup de théatre in senso letterale, infatti, preso il filobus di ordinanza, eccoci davanti all'Opera dove si rappresentava la Traviata. Che bello vedere la gente di un paese dove mancano anche i soldi per riscaldare le case, che non rinuncia comunque alla cultura, che non pensa solo ad aprire rivendite, a scambiare soldi, ma si veste nella maniera più elegante che gli consente la situazione e si siede nelle poltrone di un teatro, ascoltando con con commozione e applaudendo senza riserve. Anche i calici che l'ukraino stretto aveva trasfomato in bakaly erano levati al cielo tra le dorature dei palchi liberty. Fuori la notte era ormai fredda e gelata.

sabato 14 novembre 2009

Buchi nella neve.


Alexiej era di una magrezza preoccupante. Ne avevo già parlato nel Rasoio a due teste, ma la sua somiglianza a come mi figuravo il Raskol'nikov di Delitto e castigo era talmente perfetta da lascire senza fiato. La barbetta rossiccia, le guance incavate, gli zigomi alti e sporgenti e gli occhi soprattutto, infossati e neri, come febbricitantinell'ansia di mettere in piedi un affare, un contratto, qualcosa che producesse almeno una piccola prebenda per uscire da una evidente indigenza, segnalata dal baschetto sdrucito di pelle nera e dal cappotto liso col bavero alzato per ripararsi dal gelo che a fine febbraio mordeva duro. Era lo specchio di quella Ukraina ormai tecnicamente indipendente che la stupidità della folla osannante chi predicava le divisioni, stava indebolendo allo stremo. Era l'unico paese dove il rublo che ormai dappertutto era considerato carta straccia, faceva premio sulla moneta locale, anzi su quello che rappresentava la futura moneta , la grivna, non ancora pronta e che gli ukraini favoleggiavano fortissima e già stampata per essere distribuita a breve a copertura di uno strepitoso benessere collettivo. Così circolavano i cosiddetti Cuponi, dei rettangoli in tutto simile ai soldi del Monopoli per dimensione, colori e tipo di carta. con la sola differenza che erano stampati da due parti. In poche settimane erano scesi a un cinquantesimo del loro valore iniziale e nessuno li voleva. Alexiej me ne fornì una serie completa da 1 a 200.000, un bigliettino giallo con cui pagammo il caffè con un biscotto sabbioso con cui tentammo di rifocillarci subito dopo l'arrivo. La barista, che appoggiava sul bancone sporco la sua ottava abbondante, a cui osammo se era buono, ci guardò con curiosità. Arrivavano pochissimi stranieri a Kharkhov, fece un sorriso triste e dichiarò che nel paese da cui venivamo non lo avrebbero dato neanche ai maiali e portò via il suo peso consistente, assieme ai 200.000 cuponi, ciabattando lungo il corridoio. Mentre giravamo da un incontro all'altro, la città si spiegava davanti a me, indifesa nella sua debolezza di economia ferita, in stato preagonico. Un vecchio centro con antichi palazzi ottocenteschi e grandi viali privi di macchine dove sbuffava qualche camion fumoso e qualche raro filobus affollatissimo. Davanti alle molte chiese, le piccole piazze disegnate con cura da architetti di un tempo, erano spesso occupate da residuati bellici, autoblindo e carri coi cingoli rotti, muti testimoni di una ferita mai chiusa , di una guerra che ha ucciso qui come in nessun altro posto; un ricordo che ancora faceva chinare il capo al solo accennarne. E qui file di vecchie donne con la mano tesa in silenzio a chiedere un elemosina da chi forse non aveva di che sfamare esso stesso. Il nostro Alexiej aveva sempre in tasca un mazzetto di cuponi da 5 e da 10 e li distribuiva lentamente, uno per ogni vecchina, che gli facevano un cenno di benedizione con la mano, mentre dall'interno della chiesa saliva forte la voce salmodiante del pope. Tutti i pochi rumori della città erano comunque attutiti dalla neve che continuava a scendere piano e il grande lago del parco centrale, coperto di puntini neri, lontani, i pescatori che rimanevano ore su uno sgabellino davanti ad un buco nel ghiaccio, pareva una immensa, bianca stuoia di feltro dove le nostre suole faceva scrocchiare la neve ad ogni passo. Alexiej aveva una voce bassa e profonda e parlava lentamente, scegliendo con cura le parole; tossiva spesso, girandosi di lato come per scusarsi, con gli occhi tristi, febbricitanti. Pensai che non avrebbe passato l'inverno. Mi hanno detto che adesso è proprietario di cinque farmacie e rappresenta una multinazionale del farmaco e va in vacanza in Sardegna, quando può.

giovedì 12 novembre 2009

Un thé georgiano.


Eccoci di nuovo al treno, la costante dei grandi spostamenti di questo immenso paese. Sarà lo scartamento maggiorato rispetto al nostro che lo fa apparire più grande e più misterioso, sarà che arriva(va) sempre in orario, ma al contrario dell'aereo, che da noi è sempre stato considerato un trasporto di elite, lì il treno era per così dire un trasporto più aristocratico con i suoi coupé con le tendine e i vasetti con i fiori di plastica. Andrej mi abbracciò sulla banchina e mi fece scivolare nella tasca della dublijonka una piccola bottiglia di kognàk Ararat di 25 anni, aveva capito le mie debolezze o aveva qualche cosa da farsi perdonare. Chissà che cosa. Lo capimmo appena saliti sul vagone n. 13 del treno di mezzanotte per Kharkhov. Il maledetto aveva comprato due biglietti di terza classe (disse poi che si non era scovato di meglio) e ci trovammo catapultati nel bailamme della lotta proletaria per prepararsi in modo dignitoso alla lunga notte incombente. Zhenija, che era chiaramente fuori di testa, terrorizzato che la preziosa persona a lui affidata (cioè io), subisse disagi imprevisti, forieri quindi di future punizioni e processi, saltava qua e là come un ossesso creando confusione e ulteriore irritazione nella massa dei viaggiatori. Scavalcando montagne di bagagli, balle di masserizie e animali vivi, raggiungemmo a fatica la nostra area, una specie di scompartimento a otto posti con pancacce di legno, già completamente invase di bagagli. Cercai di infilarmi in un angolo per creare un microhabitat accettabile al fine di trascorrere alla meno peggio le dodici ore che ci attendevano, abbandonando la gestione dei nostri altrettanto ingombranti bagagli. Davanti a me due enormi bionde baffute in stile Irina e Tamara Press, praticamente senza bagagli, che risultarono essere dirette in Polonia per uno shopping tour, il commercio fai da te, che stava prendendo piede con la liberalizzazione, grazie al quale la gente si spostava verso i confini cinesi o europei per tornare ai propri paeselli carichi di merci da rivendere. Stavano sulla loro, anche se erano ben disposte ad attaccare bottone ma stringevano inesorabilmente verso l'angolo, grazie alla loro prorompente massa specifica una vecchina col colletto di pizzo e camicetta bianca di poliestere inamidata che tornava dal sanatorj di Kislovodsk, quello tanto sognato da Zhenija. Forse non aveva visto i tempi prerivoluzionari, ma di certo sembrava uscita dallo Smolnij di San Peterburg e questo mondo, anche per lo schiacciamento provocato dalle sorelle, le stava di certo stretto. Stava così muta e con l'occhio basso cercando di occupare meno spazio possibile e quando le offrii un amaretto, della scorta di cui mi aveva amorosamente dotato Tiziana, per i momenti di saudade, lo scartò con meraviglia e lo masticò adagio regalandomi con gli occhi una sensazione di piacere tale da farmi dimenticare la situazione di disagio. Le bionde invece lo divorarono con furia intente a pensare, golose, ai futuri guadagni. Di lato una famiglia di mongoli aveva disposto diverse balle di cotone ed altre masserizie nel passaggio centrale per guadagnare spazio e preparare una specie di giaciglio per la notte incombente e intanto avevano estratto una serie di beni di consumo da una sporta capiente. Stesero giornali da cui erano emersi due grossi pesci secchi e, mentre li sbranavano di gusto, cominciarono a sgusciare un numero consistente di uova sode, dopo aver aperto e posto sul tavolinetto in equilibrio precario un grande recipiente di cetrioli in salamoia e un paio di bottiglie di vodka. Al mio fianco un orco ceceno, con una imponente barbaccia nera si era già accoccolato, reclinando il testone dalla mia parte e aveva cominciato a russare. Non riuscivo a capire dove sarebbe riuscito a mettersi Zhenija, non appena fosse ritornato dalla missione esplorativa di cui lo avevo incaricato, quella di trovare una sistemazione appena più decente, con la forza del danaro, cosa che ci dava un innegabile vantaggio rispetto ai nostri concorrenti. Intanto arrivò una bigliettaia camurriosa che pretendeva da me qualcosa che, a causa della mia povertà di comprensione non riuscivo a capire; che volesse controllare i biglietti o la nostra prenotazione? Mistero, fatto sta che capii che voleva farmi sloggiare dalla mia tana, per sistemare una coppia di banditi caucasici dalla faccia scura e decisi a conquistarsi il loro posto al sole, figurativamente parlando. Tutti nello scompartimento presero parte attiva alla discussione, sembrava il processo di Biscardi, che ricordo allora era già alla 14° edizione; per fortuna ritornò Zhenija con gli occhi spiritati che gli schizzavano dalle orbite per la tensione. Come gli avevo imposto, aveva tentato di comprare lo scompartimento privato della capavagone che pretendeva 10.000 rubli, circa 15 dollari, per cederlo e voleva l'autorizzazione all'enorme esborso. Lo maledissi per il cronico e ormai geneticamente incistato rifiuto di responsabilità e lo rimandai di corsa a bloccare l'affare, prima che un'altra coppia distinta che stava risalendo il vagone in cerca di occasioni, ce lo fregasse. Andò di corsa e tornò raggiante e vincitore, interrompendo la diatriba con la bigliettaia che cominciava a spazientirsi, come del resto i ceceni. Trasportare i nostri bagagli nella nuova accogliente sistemazione fu un sollievo e la notte buia e tempestosa calò con mano plumbea sulle nostre nuche assieme al torpore della tensione dissolta. Venimmo svegliati al mattino dalla cortese dezhurnaija che portava due bicchieri colmi di profumato thé georgiano forte e ruvido; la potenza del rublo le apriva completamente la chiostra dei denti ricoperti di acciaio, il sorriso metallico ma sereno di chi si era guadagnato la giornata. Anche Zhenija era di buon umore, così le cose dovevano marciare in un paese serio e anche se la tensione ed il sudore gelato gli aveva provocato una fortissima tracheite, sorbì il suo thé con voluttà assicurando che non ci sarebbero stati problemi e anche se la broncopolmonite avesse preso il sopravvento (come sembrava probabile) avrebbe tenuto bordone fino alla morte. Ci teneva molto a dimostrare la sua affidabilità a quello che ancora riteneva uno spietato supriore, al vertice della sua visione gerarchica e ci vollero mesi a farmi considerare come un amico oltre che un collega. La sconfinata pianura del Donbass coperta di neve, scorreva intanto lenta al nostro fianco. Ancora thé indiano medio forte e Zhenija, vista la disponibilità della vagonaia, ordinava senza vergogna; gli bruciavano i 10.000 rubli comunque, ma i continui accessi di tosse catarrosa scemarono di intensità mentre il treno entrava in stazione, ovviamente in orario. Sulla banchina, sull'attenti, la figura barbuta e paurosamente magra del dostovieskiano Alexej, ci aspettava come la grande mietitrice per l'appuntamento fatale.

mercoledì 11 novembre 2009

Incontri del terzo tipo.

Non voglio farla più molto lunga; a questo punto bisogna restringere il brodo e anche quella volta urgeva la voglia di andare a riprendere il treno per il nord, ma devo ancora ricordare una piccola galleria di personaggi che incontrammo nei giorni rimanenti e che possono aiutare a capire la situazione confusa di quei giorni di cambiamento, in un paese che era rimasto immobile per settanta anni. C'era di tutto in giro, a cominciare dal primo viceministro agroalimentare, con una interminabile fila di questuanti in attesa che superammo tra i mormorii, ma si sa agli stranieri era concesso tutto e che ci ricevette con grande pompa e mi insignì direttamente di un corno istoriato di qualche animale, come segno di importante considerazione da parte dell'amministrazione locale; secondo Zhenija, un KGBista classico nei modi e nell'aspetto. Poi, al kolkhoz Patria e libertà, un colossale direttore della vecchia guardia, che aveva pienamente compreso l'avvicinarsi della fine di un sistema e che davanti a noi staccò dal muro il ritratto di Lenin, maledicendo Gorby e Elzin allora ancora compari, prima del fratricidio, seguito da un lacrimoso elogio di quando c'era Lui e del bene che aveva fatto al mondo agricolo con tutti l'annesso show delle disgrazie dei poveri contadini, grandine inclusa. Era però un ambiente che mi era consueto, a causa del mio precedente lavoro, a contatto con la stessa tipologia di persone, stessi lamenti, stesse nostalgie, anche se il ritratto lo avevano staccato molti anni prima. Così mangiammo uova sode e peperoni in composta, tra grandi brindisi a base di Stalichnaija, inneggianti all'agricoltura negletta in tutte le parti del mondo. Io guardavo Andrej dall'altra parte del tavolo che cercava di trattenere i sogghigni malevoli, senza partecipare all'ordalia che incluse una serie classica di proverbi contadini e l'elogio della fratellanza tra i popoli. E ancora l'incontro a Stavropol, in un fantomatico ente di sviluppo economico con un trombone prepotente che volle spiegarci a tutti i costi, come quello che stava accadendo fosse tutto un "gomblotto" dell'occidente per mettere in ginocchio il paese più ricco ed efficiente del mondo, una Russia dove il sottosuolo ospita tutta la tavola di Mendelejev (frase ricorrente nei panegirici tromboneggianti) e che presto avrebbe visto un cambio di dieci dollari contro un rublo, mentre il suo scherano continuò per quasi un'ora a fare cenni di approvazione con la testa, incontro che si concluse con la eventuale richiesta di prebende su fantomatici fumosi affari da concludere in futuro. A seguire, la visita a Lermontov, una delle tante città che non esistono sulle mappe, a fianco ad una montagna zeppa di uranio e segretissima sulla carta. Adesso c'è, ho controllato su Google maps, ma non ci si avvicina più di tanto , subito compare "siamo spiacenti ecc.". Con la sua fabbrica di concimi all'apparenza innoqua. Chissà come, ma in tutti questi affaire di uranio, c'è sempre una fabbrica di concimi; comunque questa produceva effettivamente urea che voleva esportare in occidente, uno dei grandi affari del momento. Infine l'ultima cena nel locale dove ci facevamo le nostre colazioni e che scoprii essere un night club di nuova generazione, anche se la mise mattutina della tenutaria, qualche sospetto me lo aveva già provocato. Qui venimmo avvicinati da due personaggi molto equivoci che parevano usciti da un serial di terz'ordine sulla mafia. Grandi e grossi, col gessato di ordinanza, gonfio sotto l'ascella sinistra, che si qualificarono come i proprietari del locale e che, avendo saputo della nostra qualifica di bizniesmeny (plurale russo di businessmen), ci proposero di aiutarli in una loro attività parallela di produzione di parquet di lusso. Declinammo l'offerta, in ogni senso lontana dal nostro settore di attività, ma i due ci vollero raccontare a lungo dei loro interessi e delle difficoltà che c'erano a far partire nuovi affari in un paese ancora con poche certezze e soprattutto con nuove imposizioni fiscali. Io raccontai delle tasse che anche da noi chiedono alle imprese oltre la metà dei profitti, loro ribatterono che, nella nuova Russia le tasse sulle loro imprese (?) erano del 90%, ma bastava non pagarle. Ce ne andammo, ancora una volta unici clienti, salutati con affetto da tutte le maestranze del locale, sulla claudicante e stracarica Prinz di Andrej che ci portò fino alla stazione di Nievinominsk, dove su un treno cupo e fumante, ci attendeva una lunga notte prima di entrare in Ukraina.

martedì 10 novembre 2009

Neve bianca.


Torniamo allora nel Nord del Caucaso, dove nel frattempo era arrivata la domenica di meritato riposo. Il pulmino ci passò a prendere la mattina presto con Andrej e la moglie Larisa che, benchè gradevole, amava definirsi una staraija kuritza, una gallina vecchia (infatti la mollò qualche anno dopo, appena messi insieme quattro soldi, in cambio di una slavata segretaria di primo pelo). La strada prese subito una lunga e selvatica valle laterale, verso le montagne sotto una fitta nevicata, mentre Zhenija si era messo dietro a sonnecchiare; aveva l'occhio sorridente, di certo sognava un soggiorno premio a Kislovosdk a riposare, steso sulle poltrone del sanatorj, bevendo Barjomj la regina delle acque minerali, salata e lassativa come nessuna altra. Sul fianco della montagna, una piccola cappella ortodossa abbandonata dominava la valle dove il torrente Teberda scivolava sotto la neve. Forse un tempo ci abitò qualche monaco, poi spazzato via dalla rivoluzione o più semplicemente dall'inedia. Ci fermammo ad una cava di marmo di cui si aveva notizia che avesse bisogno di macchine per il taglio delle pietre per unire comunque l'utile al dilettevole. In una baracca di legno un vecchio guardiano stranito ci accolse timoroso, continuando a ripetere una litania di "non so". Il direttore, se mai avesse messo piede in quel angolo perduto, se l'era filata a Mineralnije Vady, terrorizzato di incontrarci e di compromettersi in buono stile sovietico. La cava in pratica era abbandonata, con qualche vecchio macchinario ad terminare di arrugginirsi sotto la neve e una montagna i cui filoni erano stai devastati dalle esplosioni. I furbacchioni, non avendo più macchine per il taglio, avevano minato quasi tutta la montagna per sbriciolare il marmo in pezzetti da quattro/sei centimetri per fare dei piastrelloni di conglomerato. Non era più possibile ricavare marmo sano, la cava era irrimediabilmente rovinata. Il guadiano ci guardò ripartire prima di tornare a dormire nella sua branda con la bottiglia di vodka che gli avevamo lasciato. Arrivammo in un paesotto alla fine della valle, fino a poco prima era una piccola stazione sciistica, si intravedevano ancora lo scheletro di una seggiovia monoposto e un piccolo skylift. Tutto fermo e fuori servizio. Andrej era deluso, voleva mostrarmi le bellezze della zona e parve spiaciuto di tanta desolazione. Invece il posto era straordinario, completamente selvatico ed abbandonato con la neve che cadeva leggera sulla parete ripida della montagna, chiusa sul fondo della valle solitaria, con le immense foreste di pini che scendevano fino al torrente dove c'erano tracce di cervi, che forse all'alba erano scesi a cercare qualche ciuffo di erba secca risparmiato, lungo i massi della riva. Si sentiva solo il rumore dei fiocchi che si depositavano adagio e l'odore della neve. Anche i cetrioli salati e i pomodori bulgari in scatola che Larissa aveva portato per il picnic, parevano buoni e saporiti, così stesi su una fatta di pane nero e gustoso. Sognava di andare all'estero, Larisa, ma era stato solo in Bulgaria e come si diceva allora nell'URSS, - Kuritza nié ptiza, Balgarija nié za granìza- la gallina non è un uccello, la Bulgaria non è estero, rispondendo con commiserazione, anche se con un po' di invidia repressa, a quanti riuscivano ad avere una putijovka di due settimane sulle spiagge del mar Nero. "Ocin kushna" le dissi con complicità; non perdevo occasione di sciorinare le poche parole che cominciavo a mettere insieme. Sembrò contenta, anche se non aveva negli occhi quella luce bramosa che le era brillata quando le diedi la scatola di profumo di Armani che avevo portato con me dall'Italia, assieme ad altre cosette da regalare qua e là. Tornammo a valle mentre l'oscurità scendeva di colpo e la nevicata si faceva più fitta.

sabato 7 novembre 2009

Tra lana e miele.

Mi accorgo che sto allungando troppo il brodo, anche perchè, controllando l'agenda mi avvedo che ho raccontato gli eventi tra il 18 ed il 23 gennaio, i primi cinque giorni dei 43 che trascorsi in giro per l'URSS quella volta. Dunque trascurerò di dettagliare gli incontri dei giorni successivi anche se alcuni personaggi meriterebbero un approfondimento, come Kolija che misteriosamente da direttore si trovò proprietario di una fabbrica che raccoglieva, lavava e produceva lana ritirandola grezza da tutta la repubblica e dintorni, Bulik il Turkmeno dalla lunga barba che trattava compensato e cotone all'ingrosso, Rakhid, un gigantesco Karachaijevo che mi strizzò a lungo con quelle pinze che aveva al posto delle mani, raccoglitore di prodotti apistici della zona che voleva piazzare 700 chili di pappa reale a 3000 dollari e dopo aver controllato che era quasi andata a male, li avrebbe ceduti anche per cento, Oleg, un Ingusheto con la faccia da bambino che trafficava in pietre dure, Vanija, intabarrato fino ai denti in un cappottone di pelle nera bisunto che cercava di piazzare vagoni di colza e semi di erba medica e tanti altri. Non posso però saltare l'incontro che avemmo con l'aspetto ufficiale della repubbica. Il mattino dopo infatti, dopo aver subito le lamentele della ristoratrice (privatizzata) riguardo il fatto che consumavamo colazioni troppo parche, evitando kognak e tanto meno l'italijansky schampagne, più volte propostoci, uno spumantino innominabile che facevano dalle parti di S. Stefano Belbo e che quindi, essendo gli unici clienti non ci stava più nei costi, fummo ricevuti al palazzo del governo. All'incontro, con tanto di bandierine sui tavoli, partecipavano un viceministro, circondato da molti silenziosi sottopancia che, dagli sguardi obliqui e attenti che volgevano attorno a sé, stavano chiaramente cercando un nuovo riposiziosamento all'interno dei nuovi equilibri politici che si andavano formando. Anche qui le sedie degli ispettori politici, ben disposte lungo la parete di fondo, erano ormai vuote. Facemmo una presentazione molto spettacolare (naturalmente rapportata al posto) conquistando tutti con le potenzialità che si intravedevano nel dare libero spazio ed agevolare il lavoro della nostra azienda nei contatti con le nuove realtà produttive dell'area. L'atmosfera ufficiale e paludata si fece subito molto amichevole e sottilineo molto, quando cominciarono ad apparire le prime bottiglie. Dopo la fraternizzazione, salutammo singolarmente e con calore i vari intervenuti, lasciando un po' di graditissimi gadget. Il presidente antitrust, che testa a testa ci fece capire quanto avrebbe potuto agevolarci il suo aiuto, si disse ben disposto ad aiutare gli amici italiani anche come semplice segnalatore di opportunità e si meritò seduta stante una calcolatrice tascabile made in China. A sera, all'apposito ufficio telefonico, tentammo di avere tre minuti di comunicazione con Mosca, pagati in anticipo, la linea cadde ancora prima di poter dire pronto e non ci fu più niente da fare, ma ancora una volta era una questione ontologica, avevamo pagato la possibilità di telefonare, non la telefonata in sé, quindi non potevamo reclamare il denaro indietro, come spiegò bene la supponente impiegata ad un Zhenija ormai tramortito dalla rapidità con cui gli eventi si succedevano. Anche al cena al costo di tre dollari, lo innervosì terribilmente, a tal punto che nella solita partita a scacchi che mi concedeva prima di andare a dormire, non cercò neppure di fingere di fare fatica a battermi, come avrebbe imposto il suo status di sottoposto, ma lo scacco matto arrivò in poche mosse. Caddi in un sonno pesante, l'indomani era domenica e non c'erano incontri in programma.

venerdì 6 novembre 2009

Al mercato.


Trascurerò di raccontare l'incontro con quelli che sarebbero diventati i nostri migliori clienti e di cui ho già parlato altre volte e dato che quel giorno non avevamo altri appuntamenti, volli andare a fare un giro al mercato. I mercati, in generale, insegnano molto dei luoghi dove si viaggia. Si respira un'aria più realistica del posto e si avvertono vibrazioni e stimoli che ti fanno meglio capire il vento che tira in quel particolare momento. Il mercato kolkosiano di Cerkiesk era piuttosto vivace e frequentato, come tutti i mercati del sud e come quelli, decisamente più caciarone dei mercati di Mosca, molto più asettici, anche se, dietro i banchi improvvisati, ugualmente popolato di personaggi che in URSS non si vedevano da molti decenni, con occhi svegli e furbetti, decisamente diversi dalle stanche e svogliate commesse dei negozi di Producty che sonnecchiavano davanti agli scaffali vuoti in attesa di una coda che si formasse non appena girava la voce che era arrivata una partita di cavoli neri o di ciabatte n. 37. Da qualche anno, da quando era stata consentita nei Kolkhoz una produzione personale di beni alimentari, si erano creati questi centri, prima tollerati, poi semiufficiali ed istituzionalizzati, dove i lolkhosiani portavano la loro produzione in eccesso e che era ormai preponderante su quella collettiva che ormai non produceva quasi più nulla. I prezzi ovviamente erano d'affezione, sembrava uno dei nostri mercatini bio con le specialità del territorio, che i cittadini in adeguata disponibilità compravano, aggirandosi avidamente tra i banchi. All'ingresso del mercato, una novità di quei tempi, una piccola porta con scritto Cambiavalute, che ormai ufficialmente aveva sostituito il cambio in nero e anche il cambio tradizionale e che tramutava dollari in rubli. Come mai in una cittadina del Caucaso del nord, priva di qualunque attività turistica o di contatto con l'estero, una nutrita schiera di persone andasse a cambiare giornalmente dollari, avendone quindi disponibilità frequente, sembrava non interessare nessuno, anzi era perfettamente naturale, tanto che si diceva che ci fossero più dollari liquidi in URSS che in America. Tutti regolarmente sotto il materasso. Fatto sta che in pochi mesi di liberalizzazioni, la situazione economica era completamente sfuggita di mano ed era partita la cosiddetta iperinflazija, che aveva colto di sorpresa un popolo che da settanta anni era stato abituato a vedere prezzi immutabili, incisi a sbalzo sulle confezioni di latta. Nel 92, in cui ufficialmente un dollaro valeva 0,8 rubli e al nero 3,5, si era passati rapidamente ad un rapporto di 1 a 100, poi 1 a 500. Quel giorno la porticina grigia aveva un cartello che recitava : 1 dollaro, 750 rubli. Zhenija era di sasso, solo qualche giorno prina a Mosca avevamo cambiato a 550 e questi mutamenti rapidi erano così incomprensibili da generare in lui timore e incapacità di reazione. Girammo tra i banchi dove facevano bella mostra piramidi di polli, conigli, carni di montone appena macellati, cetrioli orgogliosi, cavoli neri e altri prodotti dell'orto. C'era poi un settore con guanti, calze di lana e altri indumenti fatti in casa, mutande usate, sciarpe pesanti. Non mancavano in un angolo cassette di banane e arance, prodotti un po' strani per essere surplus dei kolkhoz viciniori, ma tant'è ormai era scoppiata la liberalizazija fratelli e c'era spazio per tutto, tutto era concesso, libertà, per chi avesse avuto i soldi per permettertesela. Una vecchina, ferma lì davanti, guardava quei frutti con occhi difficili da interpretare; desiderio, stupore per qualcosa di cui aveva solo sentito parlare, risentimento per cose che non poteva avere e verso chi stava facendo maturare questa situazione. Senso di ingiustizia forse di chi stava cominciando a rendersi conto che era sul punto di precipitare da una condizione in cui aveva poco ma campava comunque, in una in cui sarebbe stato molto più duro sopravvivere, senza sapere quanto sarebbe durata questa situazione. Una incertezza nuova e spaventosa per chi aveva sempre vissuto in un mondo di sole certezze, perchi era, per età, spirito, capacità, in condizioni di debolezza sociale senza possibilità di reazione. Ai lati del mercato si vedevano sorgere, alcuni ancora in fase di preparazione, dei negozietti veri e proprii, segno che stava finendo l'epoca in cui si veniva condannati a morte per crimini commerciali se il giro d'affari superava i diecimila rubli. Mentre guardavo i vari tipi di compratori che tastavano con cura le cosce dei polli prima di tirare fuori i fasci di rubli, Andrej portò la mia attenzione su un tizio, piccolo e quasi nascosto dietro un grosso colbacco di volpe grigia che parlottava con fare circospetto con un donnone che offriva teste di montone dagli occhi tristi. La gigantesca matrioska rivestita con un grande scialle colorato, armeggiò un po' in un cassettino da cui estrasse un mazzetto di banconote che fece scivolare nelle mani del tipo che sgusciò via, apprestandosi ad un altro banco dove cominciò a parlottare con un vecchio e rugoso venditore di cavoli e conigli vivi. - Mafia cecena - mi sussurrò Andrej all'orecchio. Una sistematica riscossione di pizzo in piena regola. Come si estendono in fretta le nuove abitudini! Cominciò a nevicare più forte e c'era fango dappertutto; ce ne tornammo dunque in albergo dove cercai di spiegare bene ad uno Zhenija completamente stranito, quello che accade nei periodi di iperinflazione e come cercare di difendersi al meglio buttando tutto in beni rifugio. Si consolò quando gli dissi che avendo tutti i suoi pochi risparmi racchiusi nei dollari che aveva accumulato negli anni passati poteva stare ragionevolmente tranquillo anche se continuamente vigile all'evolversi dei fatti ed andò a dormire sereno. Come agli altri dipendenti del nostro ufficio, gli fregarono tutto le finanziarie piramidali che dopo qualche anno si diffusero a Mosca come le mosche appunto. E' il progresso ragazzi.

giovedì 5 novembre 2009

La fabbrica della ruggine 2.

Aveva gli occhi piccoli, il padrino e ti squadrava con un chè di indagatorio che dava inquietudine. Di certo la sua coorte era terrorizzata quando veniva al suo cospetto, lo si intuiva dal veloce andirivieni silenzioso che gli girava intorno, per filare via di fretta, come di chi ha un sacco di cose da fare, in modo sovieticamente inusuale. Era piuttosto corpulento e le foltissime sopraciglia e le dure pieghe agli angoli della bocca, un marchio di fabbrica evidentemente, non ammorbidivano il testone, sul collo tarchiato da mugiko e il gessato blu scuro che lo infagottava, aiutava a dipingere il personaggio. Dopo un'altra pausa, uscì con una domanda da buon piccolo padre, con un tono che voleva sembrare pacioso. - Che novità ci portano oggi i nostri ospiti che arrivano da lontano?- Informato in precedenza delle necessità, cominciai a tirare fuori dal cilindro un po' dei conigli che mi portavo appresso, depliant e campioni. Lo colpirono molti i pieghevoli lucidi e colorati che illustravano la nostra azienda e di certo mentalmente faceva il paragone con le slavate carte che ci avevano dato sull'attività della fabbrica. Quando arrivò quasi di corsa una segretariotta tondeggiante con alcuni flaconi di shampoo e detersivi, che rappresentava l'ultima produzione, opachi e tondeggianti, con le bave di politene che rendevano approssimativa anche la chiusura, un tappaccio storto e che perdeva anche un po', estrassi dalla borsa delle meraviglie la nostra proposta, uno spettacolare contenitore con impugnatura, lucido e perfetto, con un trigger spaziale che che spruzzava anche se tenuto al contrario. L'etichetta autoadesiva a dodici colori con ologramma, rendeva l'oggetto del desiderio ancor più stettacolare. Se lo rigirò un po' tra le mani, poi il corpaccio gerontocratico si sciolse di colpo e si aprirono le cataratte dell'emozionalità. In generale la gente non ha idea di cosa sia il marchio Italia, quando si va all'estero. Si parte con un enorme vantaggio che noi sottovalutiamo prepotentemente. Tutto quello che proponiamo viene etichettato aprioristicamente come il più bello, il più elegante, il più raffinato possibile. Se la merce tedesca è identificata (anche qui spesso a torto) come quella meccanicamente più efficiente, essere italiano ti dà automaticamente la patente della cosa più desiderabile e non puntare su questo fattore o disconoscerlo senza sfruttarlo a fondo, è veramente suicida per un popolo che deve fondare la sua economia sull'esportazione. Fatto sta che l'atmosfera si fece molto familiare nel salone-ufficio e la schiera di segretarie, le lavoratrici effettive, erano assolutamente intimidite da tanta inusuale informalità. Quelle decorative invece (tanto per cadere nel gossip, Andrej ci aveva chiarito l'intensa attività parallela che il Padrino aveva durante le ore di riposo nella adiecente camera personale) continuavano a guardarsi le unghie lanciando solo occhiate di sguincio da sotto le lunghissime ciglia caucasiche. La componente pilifera dell'area è decisamente al disopra della media, comunque. Si dovette brindare all'incontro con del buon cognac armeno anche se l'ora di pranzo era lontana, poi il potente, ormai conquistato, calò dalla cattedra, mi prese sottobraccio e magnificando con occhi lucidi un suo viaggio a Venezia, impose un inusuale giro dell'azienda in cui volle personalmente farci da guida, tra lo stupore degli astanti. Ci spostammo per i larghi spazi interni sulla Volga nera di ordinanza, guidata dallo stesso Padrino che ci mostrò le varie attività senza la tronfia sicumera che gli avevo attribuito in un primo momento. Doveva essere una persona intelligente e non nascondeva a sé stesso la situazione di disfacimento che si prospettava man mano ai nostri occhi. Capannoni in disarmo, la linea di riempimento, italiana naturalmente, vecchia di almeno 40 anni aveva metà dei rubinetti fuori uso, i rabbocchi manuali continui, la qualità del prodotto disastrosa. La zona del soffiaggio dei flaconi, per cui noi proponevamo la nostra macchina, pareva un antro di satana, dove gli scarti di plastica ed i contenitori sbilenchi erano ammonticchiati dappertutto e le macchie di olio ricoprivano un pavimento disuguale. Il locale dove venivano fatte le scatole di cartone era un ammasso di ruggine, la macchina quasi non funzionante, la maggior parte delle operazioni rifinite a mano per rendere il prodotto almeno usabile. I suoi occhi erano diventati tristi, anche quando magnificava la produzione del passato, quella dei tempi felici. Capiva molto bene quello di cui avrebbe avuto bisogno ed i progetti che aveva per la testa non erano affatto mal posti, ma era triste perchè sapeva di non avere un soldo, almeno per il momento e che le tante idee sarebbero rimaste nel cassetto a lungo. Conscio di un mondo che stava finendo e che forse sarebbe stato distrutto prima di ricominciare, rimaneva sulla plancia di comando, con i suoi piccoli vantaggi, mentre la corazzata affondava lentamente. Ci accompagnò al cancello dove era il nostro pulmino e mi abbracciò a lungo prima di andarsene. Evitai il bacio in bocca, ormai ero esperto ed il nostro mezzo attraversò la barriera, un tempo invalicabile, che giaceva rotta al lato dell'uscita, dove si ergeva orgogliosamente la garitta della sentinella, deserta e con il tetto sfondato.

mercoledì 4 novembre 2009

La fabbrica della ruggine.


La neve non è uguale da tutte le parti, anche il bianco sembra diverso. Nelle grandi pianure del sud russo ha un senso di sfinimento, di pace eterna, di incombenza genetica. Non nevica quasi mai, così almeno sembra, ma tutto quello che ti circonda è sempre bianco contro un cielo grigio e non ci sono neppure le sconfinate foreste di betulle bianche, solo spazi senza fine prima del piccolo segno di alture lontane. Poi si raggiunge di nuovo la città. Cerkiesk era, allora per lo meno, una cittadina della provincia estrema, pur nominandosi pomposamente capitale della piccola repubblica autonoma, ma priva di caratteristiche distintive. L'uniformità architutturale sovietica la rendevano indistinguibile dalle tante città sparse dell'universo socialista che si apprestava a diventare ex-socialista. In periferia, lunghe teorie di falansteri cadenti a quattro piani, file ordinate di krushove, le case approssimative del periodo del disgelo, costruite in fretta e raffazzonatamente, ancora più grigie delle altre ed un centro anonimo con qualche casa più massiccia di inizio secolo prerivoluzione. Ma la città era dominata da un grande complesso industriale, con enormi ciminiere che spargevano allegre nell'aria, un pesante odore di fenolo, il prodotto principale. Era il Zavod Kimik (in russo fabbrica è di genere maschile, forse per rimarcarne l'importanza) proprietaria anche della specie di albergo dove alloggiavamo e di molte realtà cittadine. Il cuore produttivo pulsante, dove avevamo appuntamento con il presidente, forse l'uomo più importante della città in quel momento. Percorremmo i larghi spazi interni della fabbrica penetrandone i meandri per raggiungere la palazzina di comando. Era un dinosauro cadente, ogni cosa ricoperta di ruggine affastellata in scheletri di capannoni fatiscenti. I rari operai si aggiravano infagottati con movimenti lenti, intorpiditi dal freddo a lasciarne indovinare la produttività improbabile. Annunciati da uno stuolo di segretarie pigolanti, avemmo infine accesso all'ufficio del Padrino, così era chiamato da tutti, diceva Andrej. I russi erano allora affascinati dalle storie di mafia e la Piovra era stato uno dei successi epocali, con tutte le signore innamorate perse del commissario Catania (così era stato modificato il nome per maggiore appeal). L'ufficio era immenso, un salone semi vuoto dove, al fondo torreggiava una gigantesca scrivania sovietica. Queste ultime erano di tipo particolare, grandi e sopraelevate, avevano davanti, accostato più in basso, un tavolo, disposto ortogonalmente a T, dove prendevano posto sottopancia di vario tipo e grado a prendere appunti, ordini o semplicemente ad ascoltare a testa bassa. La lunghezza del tavolo dipendeva dall'importanza di chi era alla scrivania, nel nostro caso era lunghissimo con almeno dieci sedie per lato. Credo che si fosse tentato di importare nelle sedi del PCI questo modello di ufficio, dai dirigenti che avevano, ai tempi, frequentato le scuole di partito a Mosca, ma non funzionò, troppa frizione con la mentalità italiana e credo fosse subito stato cassato. Di lato, un poco discoste, un paio di sedie vuote, occupate alla bisogna dai commissari politici che dovevano presiedere ogni seduta e stilare apposito rapporto. Eh, i bei tempi stavano cambiando rapidamente. Il padrino impegnatissimo, ascoltava e dava ordini secchi in telefono nero di uno dei sette od otto enormi apparecchi di diversi colori, che occupavano il tavolo di fianco alla plancia di comando completamente vuota, tranne un foglio bianco per gli appunti appoggiato nel centro. Con voce bassa, diede alcuni ordini secchi al suo interlocutore, prima di posare con attenzione la cornetta nella sua sede, quindi, finalmente alzò gli occhi su di noi.

martedì 3 novembre 2009

Semi da prato.


Riprendiamo da dove eravamo rimasti. Una mattina invernale, un solicello pallido e malato, le montagne del Caucaso fuori dalla finestra con i vetri doppi un po' appannati che non si aprono mai, con il finestrotto in alto per avere un po' d'aria ogni tanto e una colazione a base di insalata italiana (russa, ma là si chiama così) e crepes ripiene di carne tritata e verdure. La cuoca si poteva definire rigogliosa e sembrava contenta di far provare le sue cose a questo occidentale con gli occhi un po' pesti reduce da una serata difficile. Ci rimase un po' male quando rifiutai tassativamente un cognac armeno di dieci anni, una vera chicca, ma assolutamente superiore alle mie forze. Quella mattina ci aspettava una visita ad un kolkhoz nella pianura e la strada era scivolosa, anche se non ero io alla guida. Non c'era nessuno in giro, forse era ancora presto, forse l'inverno russo prevedeva allora una specie di letargo nelle attività, solo la dimensione dei campi deserti e coperti di neve mi suggeriva la differenza, per il resto mi sembrava di essere dalle parti di Pontecurone, con le colline del Pavese lontane e bianche. Il kolkhoz Rodina sembrava un po' in disarmo; sotto un portico malandato oppure direttamente nel cortile coperti di neve, decine di macchinari bisognosi di molte riparazioni, arrugginivano tranquilli in attesa dell giorno del giudizio. Il direttore era paro paro un fattore delle nostre parti, ma con un colbacco grigio, molto consumato calato sulle orecchie, che pizzicavano parecchio sulla punta. Saranno stati i meno dieci, eppure il sole dava un senso di finto ed ingannevole tepore. Dopo i saluti iniziò subito la serie delle lamentazioni, tutto uguale alle mie visite in campo nell'alessandrino, quando dovevamo ritirare il seme di frumento, i prezzi in calo, i concimi in aumento, il governo che se ne frega. Certi topoi sono identici in tutte le culture, forse geneticamente propri dell'uomo. Dopo aver convenuto che non si poteva andare avanti così e magnificati con nostalgia i bei tempi andati, andammo a vedere una partita di semi di festuca, un migliaio di quintali, che avremmo potuto ritirare in pagamento di un piccolo essiccatoio. Soldi non ne circolavavano e il barter sembrava una soluzione praticabile. L'agronomo, con gli occhi assonnati di chi è appena sceso dal letto ci raggiunse nel magazzino delle sementi. Fraternizzammo subito come è d'uso tra colleghi, mentre estraevo gli strumenti del mestiere per sondare i sacchi, facendomi largo tra torme di topi di dimensioni tutto sommato ragguardevoli. Purtroppo non si trattava di festuca rubra come avevo sperato, ma di pratensis di valore molto inferiore ed inoltre piena di infestanti. Prelevai qualche campione, tanto per non deludere, ma ce la filammo, come si dice all'inglese, dopo qualche vaga promessa. I due se ne tornarono lentamente verso la bassa costruzione che ospitava l'ufficio con la schiena curva, stringendo le spalle nei pastrani consumati, sapendo bene che l'inverno più freddo ed i giorni più difficili dovevano ancora arrivare. Il lungo viale che portava alla strada statale era percorso da una fila di gelsi bassi con i lunghi rami filanti coperti di una galaverna spessa e tagliente. Sui campi una nebbiolina bassa e leggera.