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mercoledì 8 dicembre 2010

Hotel Pekin.


Sono stato a Mosca per la prima volta nel 91. La situazione era irreale e nevicava fitto, nell'atmosfera di semioscurità latente di un novembre che preannunciava un inverno duro. La Moscova era ormai ghiacciata e le code che si formavano come per abitudine davanti ai negozi vuoti, nel lucore giallastro del primo pomeriggio, erano piene di volti stanchi e depressi, mentre le rare macchine giravano per il Kalzò lasciando una scia azzurrognola e puzzolente di carburante malato. L'atmosfera generale mi parve davvero cupa. Usciti dall'ufficio, percorrevamo a piedi le poche centinaia di metri che su un largo marciapiede ci portavano fino alla Gastiniza Pekin. La neve crocchiava soffice sotto le mie suole pesanti, mentre mi stringevo nella dublionka, con la shapka calata sulle orecchie, per trattenere il caldo dolciastro dell'ambiente da cui ero appena uscito.

Non facevo tempo a prendere freddo. Superata la grande piazza semideserta si aprivano, forzandole un po', dato che erano tutte sgangherate, le porte del vecchio hotel staliniano. Il più classico edificio del regime, uno dei sette di stile neoassiro, mutuati dalla visita newyorkese che il dittatore fece negli Stati Uniti e che scimmiottavano lo stile che tanto gli era piaciuto. Il Pekin era il più piccolo dei sette e forse il peggio riuscito con la sua decina di piani e le torri finali sproporzionate, decisamente il fratello minore anche rispetto all'Hotel Ukraina dall'altra parte del fiume, più arioso e composto. Ma la sensazione più tremenda ce l'avevi all'interno, superata la zona cuscinetto tra le porte che divideva la hall dalla piazza esterna cupa e coperta di neve. Le solite tristi incombenze al pesante bancone dove stanche addette ti facevano il favore di ritirarti i documenti vari e ti consegnavano di malavoglia il passport interno, poi te ne andavi verso gli ascensori , quasi tutti rotti per arrivare al tuo piano.

Qui, se avevi fortuna trovavi la dejurnaia, la capa del piano, il più delle volte addormentata su un divano di similpelle slabbrata e quando, incattivita dallo sgradito risveglio, ti consegnava la chiave, andavi, senza disturbarla più oltre, a cercarti la camera lungo gli enormi ed infiniti corridoi. Poi ti rinchiudevi nella stanza gigantesca. Tutto doveva essere grande e maestoso quando l'albergo era stato costruito; le dimensioni dovevano evidentemente risultare allo stesso tempo monito e minaccia per chi ne usufruiva o semplicemente le guardava; testimonianza di grandezza, ma anche di severa attenzione. Occhio a quello che fai che il grande fratello ti vede e ti giudica. In ogni momento. Questa era la sensazione. Inoltre si favoleggiava che dappertutto ci fossero microfoni e le leggende in tal senso si sprecavano, anche se nell'agonia finale del regime, credo che tutto fosse un po' lasciato a sé stesso e l'incuria generale avesse invaso anche questo aspetto della vita politica.

Al piano terra, in fondo c'era il ristorante, una misera e scarna interpretazione della cucina cinese, sempre scarsamente fornito anche di quei tre o quattro piatti che il deludente menù proponeva, su tovaglie macchiate e stazzonate. Era frequentato di malavoglia dai pochi clienti dell'hotel che al mattino, ci facevano una tristissima colazione a base di cetrioli e smietana, mentre un colossale (tutto doveva essere grande) samovar di acciaio troneggiava in un angolo della sala per il thé. Al sabato sera arrivavano gruppetti o coppie di ragazzi russi per festeggiare qualche compleanno, riempiendo qualche tavolo qua e là, i maschi con le giacchette lise e strette con una rosa in mano, le ragazze diafane e bellissime con le camicette di poliestere trasparenti e le scarpe col tacco che si erano portate nel sacchetto di plastica per cambiarsi gli stivali da neve con cui erano arrivate dalla fermata della metro poco lontana. Aspettavano a lungo dopo l'ordinazione ai camerieri svogliati, ma non sembrava loro importare. Poi si mangiavano con cura gli involtini primavera rinsecchiti e il pollo alle mandorle freddo, guardandosi negli occhi, inconsapevoli e forse disinteressati ai cambiamenti epocali e ai durissimi anni che stavano alle porte, al di là del grande ingresso, mentre la neve continuava a cadere stanca, a soffocare i pochi rumori della notte sovietica.

mercoledì 10 novembre 2010

Hotel Rossija.


E' certo vero che la bellezza è salvifica, ma credo che sia altrettanto provato che l'homo inscipiens sia portato naturalmente al brutto. Se tutto questo può avere un suo senso nei casi emergenziali, bisogna dire che la maggior parte degli scempi viene perpetrata anche e soprattutto quando la lussuria della bramosia economica si accoppia al desiderio di cambiamento e alle necessità contingenti. Alcune delle cose più brutte vengono fatte proprio in questi frangenti. Mosca non fa eccezione di certo a questo assioma, senza parlare delle periferie, che quelle sono orribili in tutto il mondo. Il centro zarista di un tempo aveva di certo una sua unità mirabile di palazzi e monumenti che, nella lucida visione urbanistica ottocentesca, conducevano attraverso un crescendo di solida bellezza alla gemma centrale del Cremlino, facendo di questa capitale una mirabile commistione di grandeur europea pervasa dalla mollezza concessa dai grandi spazi asiatici e dalle suggestioni dei suoi imperi secolari, perfetta mescolanza di raffinatezze bizantine e ferocia mongola.


Proprio ai piedi del Cremlino sorgeva lo Zaryadye, uno dei quartieri probabilmente più belli d'Europa, un insieme apparentemente disordinato di chiese ortodosse dalle cupole orientali colorate e di palazzetti che costituivano un unicum straordinario. Nel suo delirio di potere, al culmine del risultato economico della NEP e del successivo slancio industriale, Stalin decise di raderlo al suolo nel 1935, per costruirvi uno dei grandi grattacieli di stile assiro-americano che tanto lo avevano colpito di New York. La distruzione fu completata appena prima dello scoppio della guerra, come si vede in una cartolina dell'epoca. Quindi, quando si potè mettere mano al progetto erano ormai arrivati gli anni 60. Cominciò allora la costruzione dell'Hotel Rossija, forse la più grande offesa dell'umanità al buon gusto ed alla cultura. Mi ci portava l'amico Ferox, data la comodità della posizione. Arrivavo sempre la sera tardi dall'aeroporto ed il gigantesco cubo nero che emergeva dalla notte ti dava subito un senso di tenebrosa inquietudine. Nell'ingresso squinternato e semideserto si aggiravano losche figure dagli incarichi incerti e sempre in cerca di attività border line nella migliore delle ipotesi.


Al bancone, infastidite incaricate ricoperte di belletti cospicui, controllavano di malavoglia i documenti e la prenotazione ottenuta tramite amici degli amici, che diversamente avere una camera in maniera normale, con una telefonata ad esempio, era impresa impossibile. Con il tuo passi in mano, osservato altezzosamente dal finto facchino che evidentemente svolgeva altre poco pulite attività, ti caricavi il valigione alla ricerca, prima degli ascensori per vedere se almeno uno funzionasse e poi ti incamminavi lungo gli infiniti corridoi resi bui dalle lampadine rotte o rubate, dove si allineavano senza fine le quasi 4000 camere dell'albergo più grande del mondo. Anche la dejurnaija del piano, quasi sempre appisolata su un divano letto sgangherato, non faceva da ultima barriera come suo compito, così ti trovavi da solo la chiave abbandonata su una rastrelliera arrugginita e ti ritrovavi finalmente nella tua camera malandata e squallida. Staccavi subito la cornetta per impedire ai drappelli di signorine, che invece in folti drappelli svolgevano una alacre attività, di telefonarti ogni dieci minuti per tutta la notte, al fine di offrirti un relaxing massage, evidentemente uno dei servizi più richiesti nell'albergo e ti buttavi distrutto dal viaggio nel letto sgualcito in attesa di fuggire la mattina, dopo aver tentato di fare una specie di colazione, in uno stanzino triste, dominato da un gigantesco samovar di acciaio con un thé annacquato e qualche fetta di pane rinsecchita con cetrioli e composta.


Negli anni, mentre il degrado aumentava in parallelo al malaffare, le mafie probabilmente si impadronirono dell'intero controllo dell'edificio. Per evitare il completo cedimento della funzionalità, alcune parti, come pezzi di corridoi, furono cedute a società private che ne fecero dei sub-alberghi, rinfrescandone alla meglio le camere prese in gestione. Così dopo essere penetrato nel mostro ti infilavi in una sottosezione chiamata Hotel Gioconda, gestito da "Italiani" con annesso ristorante detto dei Salernitani, che proponeva "pesce appena arrivato dall'Italia", dove robuste guardie del corpo presidiavano gli ingressi rinforzati, selezionando i clienti attraverso le porte trapuntate. I business più ambigui fiorivano da quelle parti, suscitando credo, robusti appetiti.


Il direttore del Rossija fu infatti presto assassinato tra l'indifferenza generale, come molti responsabili di funzioni in odore di "sviluppo commerciale" in quel periodo. Però su tutto dominava il mostro assoluto di quella costruzione che da un lato ottundeva la vista delle mura rosse del Cremlino, dall'altra sgorbiava irrimediabilmente il lungo fiume, tristissimo e orrendo al tempo stesso. Solo un bombardamente avrebbe potuto risolvere la situazione. Bene, inopinatamente nel 2006 un'orda ruspe salvifiche circondarono il cadavere putrescente e lo demolirono completamente. Oggi l'area, mi dice l'amico Ferox, è circondata da una completa recinzione, in attesa, si dice, della ricostruzione di un'Hotel a 7 stelle per rappresentare meglio l'orgoglio Putiniano e della Nuova Russia. Nessuno conosce davvero il progetto. Forse il nuovo mostro che sta per nascere sulle macerie delle delicate chiesette ortodosse, subirà altre modifiche. Gli appetiti dei vampiri non demordono, anzi si fanno più brutali e famelici, d'altra parte si sa, con la cultura non si mangia, provate a mettere la Divina Commedia in un panino.

giovedì 21 ottobre 2010

Caviale e kognak.




L'autunno a Mosca anticipa, e di molto, le nostre consuetudini. Alla fine di ottobre generalmente, le folate gelide che arrivano da nord, fanno camminare veloci i passanti che tirano su i baveri dei cappotti in attesa della prima neve. Gli alberi dei giardini hanno già perduto quasi tutte le foglie ed i rami, all'apparenza secchi e neri, mostrano al cielo la loro nuda disperazione. Una delle mie passeggiate preferite, terminato l'ufficio, era, girato l'angolo sul Kalzò, di fronte alla massa grigia e severa del vecchio Hotel Pekin, percorrere la Tverskaija che, con una leggera discesa, quasi volesse accompagnare i viaggiatori che dopo un lungo viaggio arrivavano da occidente, ti portava, lenta,come lo scorrere del tempo in Russia, fino alle meraviglie del Kremlino. E' una strada larga e un tempo elegante che invita al passeggio sui grandi marciapiedi su cui sfila ininterrotta la serie dei palazzi della Mosca di fine ottocento, un tempo ricchi ed eleganti.

Qui anche nella Mosca disperata degli anni 90, vedevi brillare gli ultimi fuochi del regime. Quel che rimaneva disponibile delle merci ormai in via di scomparsa, da ogni angolo dell'impero, arrivava qui per essere esibita nei negozi che dovevano rappresentare un lusso nascostamente esibito, al tempo stesso dimostrazione della potenziale ricchezza del sistema e della disponibilità della medesima per il popolo che, nella realtà non aveva effettive disponibilità di accedervi. Nel Dorije morie bianco e blu, potevi vedere qualche pesce secco dal Baltico e qualche cassetta di molluschi, nei negozi Atelier, qualche manichino triste su cui erano appesi vestiti che teoricamente potevi andarti a fare su misura, nei Chasì occhieggiavano ripiani pieni di vecchi orologi che invece di essere dati a riparare come nella mission del negozio, erano esposti in cerca di un compratore. Ma, superata la piazza Pushkin, lungo la leggera discesa, ecco apparire a sinistra, al numero 14, una magia inspettata.In un grande palazzo ridondante di stucchi, si aprivano le pesanti porte dell'Eliseev Gastronom.


Nel 1901, il ricco mercante ebreo di San Pietroburgo aveva creato questo negozio che doveva rappresentare il massimo della offerta gastronomica russa in un ambientazione di sfrenato lusso imperiale. Entrare in questo enorme salone decorato in stile neo-barocco era come fare un tuffo nel passato. Sotto il colossale lampadario di cristalli italiani, si alternavano gli antichi banconi lucidi di ottoni e di legni pregiati, sui quali, a settori, potevi trovare le squisitezze più rare e particolari provenienti da tutti gli angoli dell'impero. Dalla ricca sala dei vini, dove oltre alle più classiche vodke trovavi anche il Kognak Armeno, il pregiatissimo Ararat di 25 anni, passavi alla zona dei salumi, ricca di verietà dove trovavi i più pregiati pezzi del Mijasa Kombinat. Poco più in là sui mogani tirati a specchio, vasetti di composte tradizionali, ordinati come soldatini; sotto i candelabri dorati potevi comprare un barattolo di smijetana fresca e così via, passeggiando tra i banchi per il solo piacere degli occhi, inseguito dagli sguardi delle matrone in grembiule bianco che ti mostravano, indagatrici, i prezzi, stratosferici per i residenti che si aggiravano tristi con la sensazione del guardare ma non toccare. Che bello sognare sotto il grande orologio che scandiva le ore di un passato lontano. Ti sentivi circondato da contessine ed ufficiali in abito di gala, i cui fantasmi si aggiravano ancora guardando languidamente il bancone del caviale, con le sue centinaia di scatolette, i vasetti blu del Beluga prezioso, quelle rossa di Sevruga un po' più grossolane, le gialle del mar di Azov, il caviale rosso, le scatolette di bal'ik di cui era ghiotto il caro Zhenija, che mi ci portò la prima volta.


Tra le enormi colonne in marmo colorato che si levano fino al soffitto, pesanti decorazioni in oro circondavano grandi ritratti, tra cui spiccava il suo, eccolo lì il famoso Eliseev che guarda la sua sala con occhio malizioso, come per farti capire che lui non era stupido e che ha saputo ben nascondere il suo segreto. E già, perchè la leggenda racconta che il ricco epulone, sentita l'aria che cambiava direzione, prima di far fagotto , abbia nascosto in una nicchia segreta, tra gli stucchi dorati e le colonne, tutto il suo immenso tesoro, che ahimé, non è poi riuscito a tornare a riprendere. La rivoluzione lo ha trascinato via nel gorgo della storia, lasciando soltanto lo splendido ambiente che aveva creato. Ne uscivi a malincuore, nella sera ormai scura e triste, mentre risuonavano sui larghi marciapiedi le risate dei drappelli di splendide ragazze che si avviavano verso l'Inturist ad adescarne i clienti.

giovedì 7 ottobre 2010

Grandi magazzini.


Quando l'autunno si fa più fresco e la nebbiolina comincia a calare dalle colline e si avverte l'incombere dell'inverno, inevitabilmente mi prende la nostalgia di Mosca e di quegli anni di cambiamento così interessanti per uno come me, che ero solo e fortunatamente un osservatore esterno. Nostalgia del freddo e delle strade fumose, di quel buio anticipato che avvolgeva la città malamente rischiarato dalla fioca luce gialla dei lampioni, della solitudine di quelle strade larghe, malandate e prive di macchine. Quando passeggiavo lentamente sui grandi marciapiedi sconnessi, con la shapka di pelo giallo calata sulla testa e la sciarpa bene avvolta attorno alla bocca, che il gelo non penetrasse diretto a darti quella sottile fitta dolorosa che segnalava una temperatura a cui non ero abituato, finivo invariabilmente sulla Piazza Rossa, dopo aver traversato con calma il grande spiazzo dell'ippodromo.

Non c'era ancora il grande portale ricostruito qualche anno dopo a simiglianza dell'originale e, passato il severo edificio del museo Lenin, arrivavi sulla grande piazza quasi deserta, camminando sul selciato leggermente bombato, grigio e in attesa della prima neve. Sul fondo le guglie colorate di San Basilio, occhieggiavano a contrasto dei severi graniti scuri del tromboneggiante mausoleo addossato all'alto muro del Cremlino. Ti dava la sensazione di una sonnolenta attesa, di una minaccia di cambiamento, desiderato ma temuto al tempo stesso, quasi che le novità non potessero mai essere positive. L'unico movimento consistente era sul lato sinistro della piazza e nelle vie che lì convergevano. La gente intabarrata in cappotti lisi e dublionke spelacchiate, le donne ingolfate in vaporosi maglioni di angora cinese, arrivavano a frotte e si buttavano, per sfuggire alle folate del vento del nord, nel lungo edifico che si stendeva su tutto quel lato della piazza.

Erano i magazzini GUM (Gosudarstvennyi Universalnyi Magazin - Negozio generale statale), allo stesso tempo paese dei balocchi e vetrina/immagine dell'URSS di quel tempo. L'edificio della fine dell'800, chiaramente ispirato alla moda dei magazzini La Fayette, non ne aveva comunque saputo copiare la graziosa leggerezza, ma la sua voluta grandiosità ne dava una versione pesante e provinciale, tipica di chi, potente, vuole adeguarsi a mode ed eleganza che non gli sono propri. L'edificio aveva però, nel tempo, acquisito una sua dignitosa maestosità. Entravi attraverso le triple porte sgangherate, dove una corrente simile ad un uragano soffiava costantemente. Era la differenza, a volte di 50 gradi tra interno ed esterno a renderla così violenta e costante. Così superato il passo ti trovavi di colpo, dal gelo della strada, immerso in in una atmosfera di caldo umido e sudaticcio a cui presto l'olfatto si abituava. Ti aprivi i bottoni, ti allargavi la sciarpa e subito il senso di disagio si affievoliva. Come fa presto l'uomo ad abituarsi alla puzza, al marcio, al disagio fisico a cui segue con facilità quello morale. In poco tempo tutto sembra naturale, normale, visto che se lo fanno tutti sarà giusto così. Davanti a te si apriva la prospettiva delle tre grandi gallerie coperte a tre piani su cui si apriva la sfilata dei negozi che gli avevano conferito il nome originale Verchnie torgovye rjady (serie di negozi di qualità).

Era tutto un alternarsi di punti vendita del più famoso artigianato russo, inframmezzate da negozi di abiti, cappelli, scarpe ed altri beni di consumo ambitissimi dai moscoviti e nella maggior parte dei casi desolantemente semivuoti o con qualche campione polveroso, esposto malamente sugli scaffali. Eppure questa era la vetrina dell'URSS ma dei frigoriferi erano esposte solo le fotografie e tu potevi entrare e metterti in lista, dopo avere pagato naturalmente, per avere la possibilità che un giorno indefinito ti fosse consegnato il bramato elettrodomestico. Era questa, assieme alla proverbiale scortesia e scontrosità delle commesse, la sua principale caratteristica. Io me ne andavo qua e là, godendomi i punti di vista migliori, come quello dello spazio centrale, dove dalla seconda galleria dominavi la grande fontana che occupava l'incrocio con i corridoi laterali, sotto la cupola di vetro liberty. Mi godevo tutti i banchi snobbati dai russi, perdendomi tra le scatolette di Palech mirabilmente miniate, le spille di legno colorate, i grandi scialli neri ricamati a fiori, gli splendidi giocattoli di legno, i pendenti dell'ambra del Baltico, i grandi cucchiai e i contenitori in legno rossi e neri con i motivi dipinti in oro, le bambole ukraine. Mi attirava morbosamente un grande negozio dove erano ordinatamente esposte le stupende ceramiche di Djel, bianche e azzurre, dove lasciavo invariabilmente il mio obolo, andandomene col mio pacchetto avvolto in una vecchia Pravda che conteneva un piatto portauova con la tenera gallina portasale al centro o un tazza dai bordi delicati, il cui decoro era firmato da qualche sconosciuta artista.

I prezzi erano ridicoli per noi che con la forza del dollaro stupravamo quella debole e traballante economia. Adesso le cose sono cambiate, innanzitutto la G di GUM non significa più Statali ma Grandi e ogni negozio esibisce le più famose griffe mondiali della moda, dei profumi, dei gioielli, del lusso, dedicata al nuovo russo. Niente più spazio per delicate ceramiche, tazze colorate, colbacchi di volpe, piccole sculture di osso siberiane, ma solo la volgarità internazionale di scarpe sportive americane fatte in Indonesia, vestiti con scritte confezionati in Cina, profumi con nomi francesi, gioielli dalla forma italiana. Avranno certamente cambiato anche le pesanti porte a vetro cigolanti e al posto del vecchio bar che serviva solo butterbrodi secchi con burro e aringa, adesso ci sarà un bel locale con aperitivi e cocktails internazionali. Però la gente continuerà a scorrere davanti alle vetrine allora vuote, adesso colme di cose che non può comperare, lanciando le stesse occhiate tristi in attesa di un cambiamento, come sempre desiderato e temuto, anche se come è sempre stato, bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga come prima.

lunedì 16 agosto 2010

Recensione: Custine - Lettere dalla Russia.


Oggi voglio segnalarvi un libro di grande interesse, a mio parere, naturalmente. Si tratta di Lettere dalla Russia di Custine che ho trovato in una vecchia edizione di Fogola del 1977. Credo che non sia facilmente reperibile, per cui per la copertina mi sono dovuto servire di quella di una edizione inglese. Bene, mi direte che trovare stimolante ed avvincente un libro scritto nel 1832, è un po’ azzardato, ma in questo caso, vi confesso che ho fatto fatica a staccarmene prima della fine, anche se in effetti, le ripetizioni e lo stile un po’ ampolloso e didascalico dell’opera possono apparire a volte stucchevoli. Il nostro autore, un nobile e sfaccendato francese, aspirante letterato e diplomatico allo stesso tempo, viaggiatore accanito, intende raccontare ai connazionali cosa è la Russia del suo tempo e soprattutto come siano i Russi.

In quel periodo il paese stava tentando di affermarsi come nuova potenza europea ed era vista con una certa sufficienza dall’Occidente che si considerava evoluto e moderno al confronto di quei parvenus barbari oltreché asiatici. Possiamo dire che si aveva della Russia una conoscenza per sentito dire, molto prevenuta e parziale, un po’ come succede oggi per la Cina. Il nostro dunque, viaggia da Mosca a San Pietroburgo per quattro mesi e sottoforma di lettere giornaliere, descrive con acume ed efficacia, il paese, la gente, la corte, ma soprattutto mette in evidenza il modo di pensare e il modo di vivere del paese. Quello che rende il libro sorprendente è la serie di osservazioni che ne costituisce l’ossatura. Ebbene, se non sapessimo l’anno in cui sono state scritte, tutte potrebbero essere valide e perfettamente adeguate, sia che parlassimo del periodo staliniano, che della gerontocrazia bresnieviana, che della situazione politica attuale. Se si pensa poi, che lo stesso Custine, riferisce che le stesse cose sono valide anche per i secoli passati, non si può arrivare che ad una conclusione.

Tutti i difetti ed i problemi che abbiamo attribuito al regime che per 70 anni è stato il Grande Impero del Male e che si ritiene causa dei disastri e degli effetti, a volte tragici, a volte comici che hanno fatto dell’impero sovietico l’emblema del fallimento di un sistema, sono invece propri da secoli di quel paese, che se li porta sul groppone, come retaggio di un passato e di una storia che rimane immutata ai cambiamenti di potere e dei vari rivolgimenti politici. Di certo questo libro sarà apprezzato da tutti coloro che hanno un minimo di conoscenza della Russia, che si ritroveranno in ogni frase ed in ogni racconto, che riconosceranno tipologie di personaggi e di situazioni, avvertendo rispondenze immediate coi fatti accaduti due secoli fa. Il povero Custine fu orribilmente snobbato dai suoi contemporanei, che probabilmente lo isolarono anche per le sue supposte inclinazioni sessuali. Così il suo libro, criticato dai letterati del tempo e caduto nel dimenticatoio per oltre un secolo, è diventato oggi un testo fondamentale per chi si interessa della Grande Madre. Se avete curiosità per l’argomento dategli senz’altro un’occhiata.

sabato 24 luglio 2010

Caldo o freddo?


Quando fa caldo, mi vien da pensare al freddo. Non al fresco come forse sarebbe più naturale, ma proprio al freddo freddo, quello tosto che ti è capitato qualche volta e ti ha fatto soffrire. Una volta ero sempre gelato. Quando ero in montagna, gli amici mi prendevano in giro, perché ero sempre carico di maglioni e giacche a vento pesantissime, anche quando gli altri erano in maglietta; non mi facevo mancare neanche guanti e calzettoni. Poi è stata la Russia che deve avermi cambiato. Temperature micidiali e neve sconfinata tra betulle fino all’ultimo orizzonte, ghiaccio lungo i muri, stalattiti trasparenti che cadono dai tetti. Adesso non mi pare di sentirle più le basse temperature. Ho sempre caldo e non tremo più quando tira il vento gelido dell’Assietta.


Inutile dire che i miei cosiddetti amici, diranno che è tutto dovuto allo spesso strato di lardo che, estendendosi sottopelle attorno al mio corpo, mi protegge come i trichechi, dai rigori invernali. E’ vero che in quel periodo ho messo su un bel kiletto all’anno ed alla fine tutto questo conta, ma non credo che sia solo una questione lipidica. Quando ero a Mosca, che strano, nei miei ricordi mi sembra sempre che fosse inverno, faceva sempre un freddo becco. Uscivi da un ambiente caldissimo, magari un po’ appiccicaticcio per l’aria viziata e dall’odore umano caratteristico, nessuno aveva certo la volontà di aprire le mezze finestre con doppi e tripli vetri per fare entrare le folate di nonno gelo e ti trovavi sui larghi marciapiedi scivolosi di ghiaccio della Tvierskaija, mentre l’aria gelata ti penetrava sotto i vestiti prendendoti come in una morsa.


Ti stringevi nella dublijonka spessa e ti calcavi ancora di più la shapka di pelo sulla testa per proteggere le orecchie, ma quando al termine di un respiro affannato sentivi un dolore secco in fondo alla gola, quello era il segnale inequivocabile che il termometro era sotto i 25°C. Non riuscivi neanche a camminare in fretta per raggiungere un luogo riparato, ristorante o albergo che fosse, i pantaloni si attaccavano alle gambe indurite, duri essi stessi come fossero di compensato spesso ed il passo si faceva difficoltoso, pesante. Poi arrivavi alla meta e che sollievo togliersi tutti gli strati di dosso, rientrando nell’aria dolciastra di un calore esagerato, asciugandosi gli occhi lacrimanti. Un alternanza di inferno di ghiaccio e di fuoco che forse forgiava il corpo, chissà, ti levava la mania di lamentarti. Quella volta, appena usciti dai padiglioni della fiera, nelle strade scure e senza luce del primo pomeriggio di un fine gennaio, non sentivi neanche l’odore pungente della benzina bruciata di bassa qualità.


Il Vigilante che stava dritto e immobile vicino alla sbarra, pareva l’omino Michelin, tante giacche e imbottiture aveva addosso e tra visiera di pelo e sciarponi, si vedevano solo gli occhi sofferenti di dover resistere fuori senza neanche una goccia di vodka, battendo i piedi per non congelare. Non ci controllò neanche i pass, mentre andavamo verso la macchina. La maledetta, non voleva saperne di partire e anche lui ci venne a dare una mano a spingere, verso la leggera discesa, tanto per scaldarsi. Appoggiammo le mani dietro, ma quando la macchina partì, il mio collega si mise a gridare come un matto, non aveva i guanti e la pelle dei palmi era rimasta attaccata alla lamiera. C’erano 32°C sotto zero. Quando fa freddo, fa freddo.

venerdì 16 luglio 2010

Il Milione 20: Pelli d'orso.


I nostri amici Polo, che abbiamo lasciato tranquilli per un po'. hanno superato Karakorum e i monti Altai e sfiorando il deserto del Taklamakan, chissà che caldo, e se ne vanno verso nord in cerca di strada più agevole. Non è ben chiaro se arrivano fino al lago Bajkal, che non viene citato specificamente, però di certo Marco descrive la regione circostante, l'attuale Burjatia, che era stata attravarsata durante la variante di viaggio di padre e zio, pochi anni prima.

Cap. 70
...una contrada verso tramontana, la qual si chiama lo piano di Bangu (Burjatia) e dura ben 40 giornate, a capo del quale l'uomo truova lo mare Ozzeano. La gente son chiamate Mecricci (i Mekrit che vivono a sud del Bajkal, nella zona di Chita, paese conosciuto solo dai giocatori di Risiko) e son salvatica gente; egli vivono di bestie e 'l più di cervi. Non hanno biade ne vino; la state hanno caccia e uccellagione assai, di verno non vi stae né bestie né uccelli per il grande freddo....

Accidenti se faceva freddo su quella riva ghiacciata del Bajkal. -32°C, mi assicurava Valentin, scrollando la testa perchè non faceva più quel bel freddo sano di un volta, mentre mi mostrava la lunga pista percorsa dai camion sulla superficie di ghiaccio spesso quattro metri che attraversava diritta l'immenso lago da una sponda all'altra. Ci voleva vendere corna di cervo e bile di orso, cose che, forse si trattavano anche 800 anni fa. Per le pellicce c'erano dei giri loschi, tutta roba che aveva già le sue strade, al pari di diamanti, petrolio e compagnia bella.
Nel ristorante dell'albergo ci ordinò una Okha bollente (vedere qui la ricetta), la minestra/zuppa di pesce di lago che qualcuno dei tanti puntini neri lontani, fermi per ore sul ghiaccio davanti a un buco nel ghiaccio verde, aveva pescato. Sul fianco una bottiglia di vodka e una trivellina per bucare la superficie. I pesci presi, di fianco, già belli che surgelati, una catena del freddo cortissima. In testa pesanti colbacchi di volpe o di ondatra. Questa, lo aveva già capito Marco, è terra di pellicce e l'amico Zhenja pensa ancora adesso alle magnifiche pantofole di pelle di orso che gli riscaldavano le serate moscovite davanti alla televisione. Terra estrema, selvatica e selvaggia, piena di mistero, dove l'estate dura un giorno, dove l'uomo non è contadino, dove è subito sera e le stelle sono difficili da guardare.

Cap. 70
...e vi dico che questo luogo è tanto verso la tramontana che la tramontana (la stella polare) rimane arietro verso mezzodie...

Quando si dice esageriamo!

lunedì 8 febbraio 2010

Il concerto: recensione.

Il titolo di oggi è già pomposo e pretenzioso quanto basta, ma, dato che mi portano al cinema di rado, l'occasione di ieri è stata così piacevole e divertente che non posso fare a meno di fare un cenno al riguardo. Il film di Radu Mihaileanu, regista anche di Train de vie, non poteve certo deludere e men che meno deludermi, dato lo stile narrativo che mi è particolarmente congeniale. Un racconto semplice quello de Il concerto, fondato su un topos classico, quello della sostituzione e dell'inganno, raccontato in maniera lieve ed aiutato da un montaggio indovinato che riesce ad equilibrare ed a sostenere la storia anche nei rari momenti di perdita di tensione. In breve, alla fine degli anni ottanta, il grande direttore d'orchestra del Bolshoi di Mosca, Filippov, viene destituito ed umiliato perchè si rifiuta di aderire alle imposizioni antisemite del regime e costretto a trascorrere i successivi trenta anni come uomo delle pulizie del teatro stesso. Un giorno intercetta casualmente un fax di invito, per l'orchestra del Bolshoi, da parte di un teatro di Parigi per tenere un concerto. Così comincia questa improbabile sostituzione, con l'affannosa ricerca dei vecchi componenti dell'orchestra finiti in un girone di vite miserabili, per sostituirsi agli attuali musicisti. Lo scombinato gruppo riesce ad arrivare a Parigi, dove, complice la più classica delle agnizioni, si svolgerà l'apoteosi del concerto di Tchaikovsky, ragione di vita dei vari personaggi. Il film è certamente elegante e carico di emozione nel suo svolgersi ed è particolarmente godibile, per chi come me ha frequentato la Russia di quegli anni e che potrà ritrovare con impressionante vividità e precisione, personaggi, situazioni, particolari che appaiono come macchiette, magari un po' forzate ed invece, vi assicuro, avevano un riscontro con la realtà preciso e reale. L'antisemitismo sovietico, molto presente nella società russa, la descrizione del Nuovo Russo, personaggio delle infinite barzellette, ma riscontrabile continuamente in molti ambienti, il vecchio membro del partito, ex-KGB, il colore dei diversi personaggi e delle loro vite disperate eppure, in un certo senso serene, la vodka, presenza ineludibile e costitutiva dell'intero paese, i matrimoni che, invariabilmente finiscono con la sposa ubriaca e le bottigliate in testa, anche il gruppetto di nostalgici prezzolati in Ploshad Revoluzij, alla domenica mattina, che ho fotografato anch'io, tutto apparentemente esagerato ed invece incredibilmente vero. Una serie di situazioni tragiche e divertenti che vi condurranno al gran finale con struggente divertimento. Fossi in voi andrei a vederlo, ve lo consiglio caldamente. Vi aggiungo, per stuzzicarvi, il trailer visibile su Youtube.

lunedì 18 gennaio 2010

L'importanza della musica.


E' inutile, volevo tenermi lontano dalla Russia per un po', ma è una calamita, ne vengo morbosamente attirato. E poi ero proprio un bel bambino, nel mio abitino grigio da prima comunione. Che c'entra con la Russia? C'entra, c'entra. Il collegamento mi è nato spontaneo dopo aver guardato il bel video che ha postato Annarita a proposito di bambini che cantano. Ora, quelli che mi conoscono sanno che ho una voce particolarmente poco adatta ad esibizioni che la mettano in gioco, eppure quando andavo alle elementari, il maestro di canto (c'era questa figura allora, incredibile) mi portava ad esempio come intonazione. Suonava in un fischiettino e io facevo "Laaaa..." e lui tutto tronfio "Ecco, sentite come si deve fare", mi portava in giro per le altre classi e io ero tutto contento. Poi credo che non si fece neanche il coro natalizio e lì finì la mia carriera di cantante, ma chi poteva dire se questa attitudine mi sarebbe mai servita nel corso dell' esistenza? Ed eccoci a Celijabinsk, una delle città siberiane più anonime e prive di interessi, appena la di là degli Urali. In un ennesimo gelido febbraio, io e Ferox eravamo alle prese con un difficile problema. In quel periodo, la Russia, essendo stata cattiva pagatrice aveva perso ogni credibilità commerciale internazionale (meditate, meditate) e ogni acquisto veniva fatto Stoprozientov predoplata (cento per cento pagamento anticipato). Ma anche quando il contratto era firmato era sempre molto difficoltoso ricevere i soldi; le carte si fermavano più volte in un meccanismo vischioso, transitando da un ufficio all'altro, mentre il cliente aspettava la merce e in Italia non si cominciava neanche il progetto se prima non era arrivata la grana. Avevamo firmato un contrattone storico, ma le settimane passavano e dei soldi neanche l'ombra, sempre in giro, rimandati da ufficio in ufficio, incastrati nella burokratija sovietica, quando arrivammo al famoso ufficio amministrativo che doveva firmare e soprattutto apporre i timbri rossi e rotondi sull'autorizzazione di pagamento. Entrammo con baldanza in un ambiente spazioso dove la capa responsabile, circondata da due indaffaratissime addette, non ci prese molto in considerazione. Ferox, dotato di un russo mirabile cominciò la sua opera affabulatoria, che fece subito breccia nella glaucopide biondona. Essere italiani è comunque un buon passepartout da quelle parti, anche se in un angolo la prima attendente non staccò minimamente la mano dal mouse e la seconda, dai lunghi capelli, continuò infervorata la sua attività. Ferox spiegò a Tanija (bisogna sempre entrare un po' nell'intimo con i Russi) la nostra impellente necessità di avere i soldi e chiarì le procedure da eseguire sulle nostre carte, ma anche se ascoltato, si avvertiva una certa sufficienza dalla controparte. Ci volevano giorni, controlli e comunque avremmo dovuto tornare tra una settimana. Chiedere era semplice ma fare tutta la procedura, non era facile come cantare una canzone. Ferox appoggiò i gomiti sul bancone e guardò fissa negli occhi colei che aveva nelle mani il nostro destino e propose: "E se ve la cantassimo una bella canzone italiana?". Istantaneamente anche Irina smise di fissare il solitario che aveva sul monitor e si girò verso di noi, mentre Natasha, le cui forma procaci erano avvolte in un morbido e pelosissimo golf cinese, cessò di limarsi le unghie, lavoro in cui era completamente assorta, ci guardò con occhi diversi e inclinò dolcemente la testa appoggiandola alla mano. Conoscendo l'affetto delle russe per Celentano, partimmo subito con Azzurro e mentre le tre grazie avevano gli occhi perduti nell'oceano della melodia, passammo ad 'O sole mio. Ferox, mentre mi faceva il controcanto, aveva estratto come per non parere i documenti dalla cartellina e li aveva disposti in bella mostra davanti a Tanija. Avevo appena attaccato Fenesta ca luciva e'mmo non luce, che già il famoso timbro tondo era comparso come per magia e calava implacabile sui fogli lasciando l'indispensabile marchio rosso del nulla osta. Le ultime note della canzone si fusero con il ticchettio del fax che trasmetteva alla banca il mandato di pagamento. Uscimmo nella neve che risplendeva in delicati cristalli al pallido sole alto nel cielo sereno invernale. Non sentivamo il freddo intenso. Due giorni dopo i quattro milioni di dollari erano nella banca italiana e i nostri progettisti cominciarono a tracciare le prime righe, l'uffico a ordinare i materiali, i ragazzi dell'officina a fare lo spazio dove sarebbe sorta la nuova linea.