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venerdì 13 marzo 2009

Lettòne o Lèttone?

Qualche giorno fa, Dottordivago, sul suo blog Il panda deve morire, faceva riferimento al lettòne da non confondere col lèttone e subito la mente mi è tornata ad un momento importante della storia europea ed al fatto che puoi capitare in mezzo ad avvenimenti più grandi di te senza accorgertene minimamente. La skyline di Riga vista al di là della Daugava ghiacciata nel cuore dell’inverno, non è particolarmente avvincente, come invece passeggiare tra le case dalle facciate colorate della città vecchia. Così lasciammo alla sera la città, senza troppi rimpianti, con qualche contatto in agenda, ma pochi affari concreti. Salimmo dunque nel vagone coupé che ci avrebbe riportato in una Mosca nervosa per i cambiamenti troppo improvvisi, preparandoci per la notte. Opportunamente pigiamati, nel calore torrido del vagone, non avvertivamo i -20° C con cui la notte russa avvolgeva il convoglio che fendeva l’oscurità. Dopo qualche tempo, era già passata da un po’ l’ora del vampiro, il treno si fermò nella pianura gelata e bianca. Assonnati, ci tirammo fuori dalle cuccette pensando al solito formale controllo passaporti, all’ingresso della regione russa, ma non avevamo fatto i conti con la storia che incombeva su di noi in quel marzo del ’93. Quando pochi giorni prima eravamo partiti, uscivamo dall’URSS vicina al tracollo, ora entravamo in Russia passando dal nuovo confine lèttone-russo. Dagli sportelli spalancati, assieme al gelo della notte, entrarono un gruppo di neodoganieri, compresi del loro nuovo potere e completamente ubriachi. Un vero assalto alla diligenza con urli e minacce che procedevano di scompartimento in scompartimento verso di noi. Io, semiaddormentato ed alle prime esperienze russe, capivo poco, ma Gianni ed Eugenio scesero dalle brande con occhio preoccupato. Mentre i figuri in divisa taglieggiavano i poveracci coi fagotti che ci precedevano, un graduato col cappello di traverso sbattè i pugni sulla nostra porta intimandoci di aprire. Consegnammo i passaporti e qui cominciò il dramma. Secondo il tizio, che tentava di tramortirci con il tasso alcoolemico del suo fiato urlandoci in faccia, io ero uscito illegalmente dalla Russia qualche giorno prima e il mio vecchio visto non mi consentiva di rientrarvi. Gianni, in possesso di visto multiplo ed Eugenio, essendo russo, si trovavano in una posizione più sfumata, se pur pesantemente irregolare. A nulla valse spiegare che quando eravamo usciti c’era l’URSS e non ti timbravano il passaporto per andare a Riga, il major non voleva sentire ragioni e a suon di urla voleva buttarci (o buttarmi , non capivo bene) assieme alla valigia, in pigiama in mezzo alla neve. Dal colore della faccia dei miei amici, capii che dovevo cominciare a preoccuparmi, mentre Gianni iniziava una lunga e suadente conversazione col graduato che gridava insulti all’indirizzo degli stranieri prepotenti e tirchi. Questa parola segnò la svolta della trattativa. La sagace mente di Gianni interpretò il lessico leggendolo nella sua giusta valenza. Intanto sottolineò che noi non eravamo affatto tirchi e che anzi, noi eravamo i primi a ravvisare l’opportunità e la correttezza di pagare il giusto per avere un nuovo visto. Questo argomentare sembrò rabbonire il cerbero che bofonchiò qualcosa, accennando ad un costo di venti dollari in contanti, cifra evidentemente valutata come spropositata. Con grandi sorrisi, pagammo rapidi, mentre l’atmosfera si rasserenava e ci venivano restituiti i preziosi passaporti, Tralasciammo di far notare che il timbro del visto era rimasto completamente virtuale e salutammo con la mano i compari del capo che scendevano dal treno in giacchetta con in mano alcune bottiglie di vodka rapinate allo scompartimento successivo, mentre la superficie ghiacciata tra i binari scricchiolava al loro passaggio. Il treno si mise in moto lentamente nell’inferno bianco; erano le tre del mattino, ma non riuscii più a dormire fino a Mosca.

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