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martedì 3 marzo 2009

Rosso rubino


"La place rouge était vide..." un ritornello che non riusciva ad andarsene. Che notti, quelle d'inverno a Mosca. Cominciano alle tre del pomeriggio a fine dicembre. Che pace andare a piedi verso la Piazza Rossa, dopo cena, da solo, con le suole spesse che fanno scricchiolare la neve nella immensa piazza deserta, mentre sotto i denti sentivi il gusto di ferro del freddo e dei fiocchi che non ce la facevano a cadere. Solo qualche sfarfallio, di tanto in tanto, a ricordare con qualche puntura sul viso la durezza morbida di quel mondo. Giravano pochi turisti allora e se ne stavano tutti rintanati all'Inturist, quando non se li trascinavano su vecchi torpedoni al Bolschoy o a Novodievicy. Sul grande spazio della piazza qualche guardia lontana, infagottata nel feltro sotto la shapka di ordinanza a far finta di non sentire il freddo, ad impedire che si attraversasse, chissà perchè, il grande spazio aperto. Sulla destra i magazzini GUM, che avevano chiuso appena uscita dalle sgangherate porte da cui usciva un soffio potente di calore teletrasportato, l'ultima truppa di matrioske che si erano aggirate tra i negozi che esponevano le ultime produzioni sovietiche, magari in fotografia , da prenotare. Il Cremlino incombeva sulla destra, quasi nascondendo l'incongruo mausoleo di Lenin dove le code di visitatori silenti si erano man mano diradate negli ultimi tempi, con la sua presenza silenziosa ma ammonitrice. Sull'alta torre Spaskaija, come mi ricordava sempre chi conosceva bene le cose, brillava comunque e forte la stella di rosso rubino. Ogni tanto si apriva lentamente il portale , le guardie si ponevano sull'attenti e dopo poco una Volga nera coi vetri scuri arrivava a velocità folle (chissà perchè poi) e si infilava senza rallentare sotto la torre scomparendo nei meandri del Politburò, forse a discutere dello sfacelo incombente, mentre i gerontocrati rimanevano fermi con l'occhio fisso ed il sorriso imbalsamato che li avrebbe dissolti. Che senso di immobilità statica nella grande piazza. In fondo, le cupole di San Basilio gigioneggiavano, fiamme multicolori a ballare il sabba dell'attesa di un evento prossimo. Poi, sazio, me ne tornavo al mostro ipertrofico del Rossia, una ferita inguaribile aperta poco lontano sui cadaveri di piccole chiesette ortodosse, percorrendo a piedi i larghi spazi deserti. Non serviva guardare attorno prima di attraversare; non passavano auto, non c'erano auto.

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